Che fare? Le due metà dell’arte italiana
È giusto dire che l’arte italiana contemporanea è declinante? O trarre occasione dal mancato invito di giovani artisti italiani a questa o quella Biennale planetaria (i.e., Gwangju) per contestare l’attività di un’intera generazione? No. Così la pensa Michele Dantini.
La percezione dell’aleatorietà è diffusa a livello internazionale. Esiste tuttavia una fragilità specifica italiana. Il punto cruciale è: logori oligopoli interpretativi impediscono da decenni di maturare esperienze autonome, situarsi in senso storico e sociale e progettare l’inevitabile conflitto genealogico. L’autonarrazione dei padri divora le narrazioni dei figli. L’autocommiserazione non serve, piuttosto la capacità di stabilire connessioni coraggiose e innovative. In mancanza di una più chiara definizione della propria “comunità immaginata”, l’attuale interesse per storia e politica è poco più che moda o gioco: non ha necessità condivisa né produce catarsi tragica. Sprovviste di sufficiente distanza storica, di motivati criteri di scelta e di adeguati metodi di indagine, le rievocazioni degli “anni di piombo” o del sequestro Moro rischiano di sembrare autocompiacimento puerile o peggio: un opportunistico contributo in chiave Italian Theory all’industria nazionale del folklore.
Come venir fuori da decenni di postmoderno pre-politico, di appropriazionismo cinico e sentimentale? La demagogia non è la risposta. Gli artisti non sono (né sono tenuti a fare gli) attivisti, ed è irritante vedere le pratiche dell’attivismo ridotte a ornamento dei musei. La dedizione al proprio lavoro è un requisito importante, come pure la disponibilità a riflettere sulle implicazioni più ampie e generali della propria attività. Ma in tempi recenti in Italia “compulsività artigianale” (la citazione è da Richard Sennett) e sensibilità politica e sociale sono diventate reciprocamente estranee l’una all’altra. Questo divorzio ha sicuramente a che fare con il modo in cui siamo percepiti in ambito internazionale. Abbiamo eccellenti “artigiani compulsivi” che lavorano sulla dimensione dell’inattualità e confusi agit-prop della “partecipazione”.
Non sarebbe male mediare. Ci si può ragionevolmente proporre di creare “comunità” solo se ci si è interrogati a lungo sulle forme sociali del rispetto. L’offerta di coinvolgimenti momentanei non avvia seri processi di riconoscimento, neppure se ha luogo in un museo, al contrario: costituisce la parodia di un’arte che voglia davvero definirsi “pubblica”. Le fragilità dell’arte italiana attuale si risolvono da un lato incoraggiando gli artisti a prestare attenzione (anche civile) alla propria attività; dall’altro riprogettando i processi di lungo periodo, formazione in primis. Questo è un compito politico.
Michele Dantini
Editorialista e saggista, Docente di Storia dell’arte contemporanea Università del Piemonte Orientale
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #21
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