Close-up Los Angeles. Ascesa di una stella
Los Angeles è una distesa immensa, luogo di spazio sconfinato e orizzontale, di cielo onnipresente e luce. È quel posto che, una volta visitato, riconosci in quasi tutti i film e le serie tv americane. È la città del sole il cui lato oscuro e distopico popola da sempre l’immaginario della fantascienza cinematografica. E ora è anche un’agguerrita concorrente di New York. Obiettivo? Semplice. Conquistare lo scettro di capitale dell’arte contemporanea negli States.
“Tip the world over on its side and everything loose will land in Los Angeles”. Leggenda vuole che a pronunciare questa frase sia stato Frank Lloyd Wright. Contiene una sfumatura di significato difficile da rendere in italiano: dove quel loose sta per ‘slegato’, ‘svincolato’ e quindi anche ‘libero’ e in alcuni casi ‘dissoluto’. Wright o chi per lui si riferiva probabilmente alla capacità di L.A. di assorbire nuove idee e mentalità, insieme all’umanità varia che ne è portatrice. Se Reyner Banham nel 1971 ne lodava la modernità urbanistica, oggi Los Angeles è una megalopoli nella quale si radica la contraddizione tra senso di libera, continua evoluzione e ossessione per il controllo di un territorio così vasto, in cui si annidano le fobie dei benestanti: come ben racconta l’interessante film-documentario di Francesco Conversano e Nene Grignaffini (2007).
Negli ultimi due anni la scena artistica di questa megalopoli sembra aver intrapreso un percorso di progressiva ascesa: a discapito di New York secondo alcuni, a riflettere il fenomeno globale di decentramento del mondo dell’arte secondo altri. Entrambe le cose sono vere.
Il mercato ha immediatamente registrato questi segnali. Oltre ad Art Los Angeles Contemporary, la fiera d’arte giunta alla quinta edizione, si è aggiunta quest’anno Paramount Ranch, fiera indipendente nata dall’iniziativa dei direttori della galleria Freedman Fitzpatrick e ospitata in un set cinematografico per film western vicino a Malibù.
Come Paris Photo LA, edizione losangelena della celebre fiera francese dedicata alla fotografia, che per la seconda volta ha avuto luogo negli studi della Paramount a Hollywood. Mentre a fine marzo si svolgerà la prima edizione losangelena di FIAC. La Francia è in effetti uno dei Paesi europei che sta scommettendo di più sull’ascesa culturale della capitale californiana. Il ministero della cultura francese investe discrete risorse nel progetto di gemellaggio Ceci n’est pas…, che in collaborazione con diversi imprenditori ha promosso nell’ultimo anno numerosi eventi di cui sono stati protagonisti artisti, curatori, istituti e gallerie francesi.
Gli eventi fieristici di Los Angeles sono sempre più considerati come appuntamenti da non perdere. Si scommette sulla possibilità di attingere a un bacino di collezionismo in crescita, il cui gusto tuttavia è tuttora in fase di trasformazione e non si lascia orientare facilmente dai trend prevalenti sul mercato internazionale. Quella del mercato non è infatti la principale chiave di lettura, in questo processo di riassestamento degli equilibri fra la East e la West Coast.
Risale al 3 febbraio un articolo di Moby che ha fatto scalpore. Commissionato da Creative Time e uscito anche sul Guardian, racconta perché il noto cantante e compositore abbia deciso di trasferirsi da New York a Los Angeles. New York è ormai una città dopata, di soldi e successo, spiega. Vive del suo mito, alimentato da persone che consumano cultura più di quanto contribuiscano a produrla. Mentre a Los Angeles chiunque, anche artisti, attori e registi di successo, prima o poi arrivano a fare i conti con la possibilità del fallimento. Qui puoi arrivare alle stelle dal nulla, ma puoi anche perdere tutto in un momento.
“Sperimentazione e inevitabile familiarità col fallimento occasionale sono parte dell’ethos di L.A. Quando è condiviso, il fallimento può essere emancipante e perfino creare solidarietà. I giovani artisti a L.A. sono liberi di sperimentare e se i loro sforzi cadono nel vuoto non è poi così male, perché l’affitto è relativamente economico e quasi tutti quelli che conoscono tentano cose nuove e falliscono, allo stesso modo. C’è pure l’eccitante e non rara prospettiva di fare successo a un livello globale”. Affitti più bassi, dunque, maggiore disponibilità di spazi e (strano ma vero) una struttura sociale più favorevole al mantenimento di una comunità artistica. Vivere a Los Angeles significa in effetti godere di una condizione a metà fra la vita residenziale di periferia e l’infinita disponibilità di stimoli di una moderna metropoli. “Semplicemente qui una buona vita domestica è più a portata di mano”, nota ancora Moby, “perché L.A. ha inventato e insieme perfezionato quello strano equilibrio fra il suburbano e l’apocalittico”.
Los Angeles è anche la città dell’eterno presente, dove al passato non è permesso stratificarsi perché la grande disponibilità di spazio e l’architettura a basso costo favoriscono una continua trasformazione. Se si esclude Downtown, con i suoi eleganti edifici art déco risalenti agli Anni Venti, a Los Angeles il fardello della storia non appesantisce il passo di chi cerca di incidere una traccia più personale.
“Ora nessun artista lascia L.A. dopo il diploma”, osservava l’artista Laura Owens già in una intervista del 2009. “Mi piace il senso di libertà qui in California. Sarebbe meraviglioso vivere a New York e uscire per andare a visitare il Met, ma è altrettanto fantastico non farlo e non sentirsene oppressi. Qui c’è la sensazione di trovarsi alla frontiera”.
Oggi Los Angeles è una grande città di frontiera, soprattutto per l’estrema varietà della sua composizione etnica. Oltre a registrare l’influenza del vicino confine con il Messico, vi si concentrano anche numerose comunità nazionali – armena, etiope, coreana, giapponese, messicana, indiana, russa, tailandese, vietnamita, iraniana ecc. – per lo più radicate in aree urbane circoscritte. A questa ricchezza etnica corrisponde una grande apertura culturale, orientata prevalentemente verso scenari non-occidentali. Importanti istituzioni come il Getty Museum, il LACMA e le principali università, nell’ultimo periodo hanno sviluppato programmi di ricerca ed esposizioni volte ad approfondire la storia dell’arte latino-americana e dell’estremo oriente, mettendo a fuoco i processi di scambio con la West Coast statunitense.
I musei che si occupano più strettamente di arte contemporanea vantano pure una programmazione ricca e aperta. Se il MOCA si sta lentamente riprendendo dai problemi finanziari e dalle polemiche nate attorno alla direzione di Jeffrey Deitch, riguadagnando fiducia anche grazie alla spettacolare retrospettiva su Mike Kelley, l’Hammer Museum dà sempre più spazio ai giovani artisti locali ma anche a mostre dal taglio critico non convenzionale. L’ultima edizione di Made in L.A. ha ricevuto buona accoglienza e per certi aspetti è sembrata migliore della Biennale del Whitney. A queste istituzioni si aggiungerà presto un altro centro per l’arte, il Broad Art Museum – iniziativa del collezionista imprenditore Eli Broad – la cui apertura è prevista nel 2015. Collocato proprio di fronte alla sede centrale del MOCA (cui fra l’altro Broad nel 2008 donò 30 milioni di dollari, salvando il museo dalla bancarotta), questo edificio grande e appariscente è da tempo al centro dell’attenzione anche per via della sua architettura, firmata dallo studio newyorchese Diller Scofidio + Renfro.
In un contesto urbanistico così dilatato e privo di un centro, le gallerie d’arte contemporanee sono distribuite in modo abbastanza omogeneo, tuttavia si distinguono aree di maggiore concentrazione. Come l’art district di Culver City, su La Cienega Boulevard., dove si trova la maggior parte delle gallerie affermate, il cui stile sofisticato e l’alto profilo commerciale non hanno nulla da invidiare alla Chelsea newyorchese. Un’altra zona interessante è quella tra Santa Monica e Venice, con la Bergamot Station, ex stazione ferroviaria i cui spaziosi hangar sono oggi sede di gallerie e del Santa Monica Museum of Art.
Recentemente molte gallerie si sono trasferite a Los Angeles o vi hanno aperto una succursale. Un esempio significativo arriva dall’annuncio di Hauser & Wirth, che si è associata con Paul Schimmel (ex chief curator del MOCA) per aprire un grande centro per l’arte dentro un vecchio edificio per la macinatura del grano risalente ai primi dell’Ottocento, a Downtown su East 3rd Street. Il complesso dovrebbe inaugurare a gennaio. Non a caso si parla da tempo di una rinascita di Downtown, che dopo essere stata ripulita sta assistendo alla riapertura di hotel e ristoranti, con nuovi business che fanno da traino per le gallerie. Attualmente il fenomeno più rilevante è quello dell’apertura di studi e spazi alternativi nella zona sud-est di Downtown, un’area ex industriale attorno a Washington Boulevard ricca di depositi abbandonati e hangar. Le gallerie hanno cominciato a spostarsi lì, a partire da Night Gallery, François Ghebaly e The Mistake Room, ambizioso spazio non profit. Ghebaly in particolare ha occupato un immenso deposito i cui spazi ha poi suddiviso per ospitare altre realtà (come il Los Angeles Contemporary Archive, The Art Book Review, 2nd Cannons, DoPe Press e la non profit Fahrenheit).
Molti di questi spazi alternativi più interessanti a Los Angeles sono gestiti direttamente dagli artisti. The Museum of Public Fiction è stato fondato nel 2010 da Lauren Mackler, arrivata da New York, e quest’anno è stato incluso in Made in L.A. come collettivo indipendente. Hanno aperto da poco gli studi Werkartz, con relativa galleria, aperti nei piani abbandonati di un immenso warehouse, che gli artisti affittano alle produzioni cinematografiche per coprire le spese.
Spazi autogestiti e spazi non profit sono una realtà abbastanza strutturata a Los Angeles. I più famosi sono LAXART e 18th St. Arts Center, quest’ultimo caratterizzato da un buon programma di residenze per artisti e da un orientamento indipendente e sperimentale.
Merita poi una segnalazione lo Chalet, spazio d’artista e luogo d’incontro esclusivo creato da Piero Golia in stretta collaborazione con l’architetto Edwin Chan. I due hanno lavorato tre anni per trasformare un ex magazzino su Hollywood Boulevard in un originale salotto-studiolo dagli interni in legno, configurati per favorire l’interazione fra persone e per accogliere opere d’arte: un acquario di Pierre Huyghe, un quadro di Mark Grotjahn e una fotografia di Jeff Wall. A cadenza settimanale lo Chalet si apre (l’ingresso è seminascosto in un parking) ad accogliere artisti, critici, curatori e altri addetti ai lavori dell’arte, che qui si ritrovano e socializzano, allietati da originali performance di arte e musica.
I mesi a venire saranno importanti per verificare la solidità e la direzione di questi fenomeni di risveglio nella scena artistica losangelena. Presto il MOCA rivelerà il nuovo programma e l’attenzione di tutto il mondo dell’arte è puntata sul nuovo direttore, Philippe Vergne, che insieme alla neo-nominata chief curator Helen Molesworth dovrà indicare una via credibile verso cui orientare la ritrovata fiducia di artisti e board of trustees.
Emanuela Termine
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #21
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