Come cambierà Matera, Capitale Europea della Cultura 2019. Intervista a Joseph Grima
È la città che lo voleva più di tutte. Più di Lecce e Cagliari, le dirette rivali del sud. E ora Matera deve ripensare se stessa per ospitare un evento che cambierà per sempre la sua storia. Abbiamo intervistato Joseph Grima, direttore artistico del progetto.
Matera è una città ricca di fragilità, dalla posizione geografica non facile, che vive spesso in una condizione di isolamento. Nonostante questo ce l’ha fatta e ha vinto su altre cinque illustri colleghe: Lecce, Cagliari, Perugia, Ravenna e Siena. La sfida è considerevole. Ma il suo direttore artistico non ha dubbi: la città vuole riscattarsi, il livello di partecipazione e la voglia di riuscire sono altissime.
Come cambierà Matera? L’idea è di pensare il territorio come un enorme palcoscenico all’aria aperta che ospiterà iniziative, performance artistiche, un museo di nuova concezione e una open school di design. Ma sarà anche l’occasione per riportare alla luce un progetto che Renzo Piano ideò nel 1984, l’Arca di Prometeo, un teatro mobile che, dopo essere rimasto in soffitta per vent’anni, troverà una nuova sistemazione proprio nella capitale della cultura.
Di come sarà Matera nel 2019 ne abbiamo parlato con il direttore artistico Joseph Grima, che nel 2013 si candidò tramite una open call. Architetto, classe ’77, nato ad Avignone ma italiano d’adozione, ci spiega perché Matera ha vinto e come pensa di realizzare un programma di eventi con un budget low cost e “frugale”, basato sulla riqualificazione urbana della città, fuori dalle istituzioni. Tutto per costruire un nuovo modello culturale da esportare all’estero.
Una breve auto-presentazione. Chi è Joseph Grima?
Sono architetto e vivo a Genova da un paio d’anni. Mi sono occupato dei diversi aspetti della critica e ho lavorato per la rivista Domus. Mi occupo anche di progettazione, ho uno studio a Genova che si chiama Space Caviar composto da figure eterogenee tra arte, design e architettura. In questo momento mi sto occupando della Biennale di Architettura di Chicago, di cui sono il co-direttore artistico, e poi sono il direttore artistico di Matera 2019.
Quando hai saputo che sarebbe stata Matera la Capitale Europea della Cultura 2019, cos’hai pensato?
Ero in una situazione abbastanza assurda, in Belgio, sul palco, davanti a un centinaio di persone per l’inaugurazione di una grande mostra che abbiamo curato. C’era il moderatore che mi stava introducendo quando, di nascosto, ho guardato il telefono e ho visto l’sms che mi diceva della vittoria. Poi ho dovuto parlare per mezz’ora davanti al Ministro della cultura belga e non potevo proprio esultare.
La prima cosa che ho pensato è che questa è una straordinaria opportunità. Tutti i programmi delle sei città finaliste sono innovativi, però ho pochi dubbi che il nostro fosse il più ambizioso. Penso che fosse il più visionario rispetto all’impatto che potrebbe avere sulla cultura e sulla produzione culturale in questo Paese.
Rispetto alle altre candidate italiane, perché secondo te è stata scelta Matera?
Matera è stata una città che ha subito momenti di grande umiliazione e vergogna, eppure ha avuto la forza di superare quelle difficoltà. In questo momento ogni città, soprattutto in Italia, ha un pochino di Matera in sé. Questo è un grandissimo segnale di incoraggiamento che ci fa capire che possiamo davvero riscattarci, qualsiasi sia la nostra condizione. Matera è la città che lo voleva di più. Il livello di partecipazione è stato veramente inaudito, era qualcosa che il territorio sentiva in un modo che nessun’altra città sentiva. Questo posso dirlo con certezza.
Come direttore artistico, qual è la tua idea per Matera 2019?
Lo slogan che abbiamo scelto per la candidatura è Open Future, in riferimento a tutto il movimento della condivisione, dell’open source, della produzione artistica, culturale, collaborativa. Ci troviamo in una città che non è neanche collegata alla rete ferroviaria nazionale. Dobbiamo ripensare a un nuovo modello per le arti performative, in maniera che si possa usare la città stessa come un’enorme teatro. Si tratta di trovare altri metodi per produrre cultura, per attivare i luoghi al di fuori delle istituzioni.
Poi c’è questa idea della cultura che attiva l’economia, ma non attraverso semplicemente l’affidarsi ai beni storico-culturali e a quello che è stato il turismo di massa. La monetizzazione del turismo, che è stato il modello adottato da alcune città come Assisi, dove io sono cresciuto, non ci interessa. Vogliamo trovare un nuovo modello in cui la cultura fa parte dell’economia, della vita quotidiana e non sia disconnessa, come una sorta di entertainment, uno svago che si fruisce solo nel tempo libero, ma sia parte integrante del nostro modo di guardare la città e la vita quotidiana.
Rispetto al programma, quali sono gli elementi su cui punterete maggiormente?
Sono due i progetti alla base della candidatura. Il primo è l’Open Design School, una scuola di design aperta. Non un’istituzione pedagogica classica ma una sorta di modello orizzontale che si occuperà di tutte le arti performative, dal cinema al design all’architettura. Tutte queste discipline sono accomunate dall’idea che possano arricchirsi a vicenda. Se vuoi è una sorta di citazione del Bauhaus, però con i criteri del XXI secolo in cui siamo tutti collegati in rete con grande velocità di comunicazione.
La seconda idea è di fondare un nuovo tipo di museo che, invece di acquisire una collezione permanente propria, diventa l’epicentro di una rete regionale che fruisce di tutti gli archivi preesistenti sul territorio. Un po’ come i grandi musei internazionali come il Louvre e il British Museum. Il problema degli archivi è che solitamente sono off limit, noi gli offriremo un luogo in cui si possano incontrare ed essere visibili a un pubblico internazionale.
Questo nuovo museo di cui parli verrà realizzato ex novo?
Come filosofia generale abbiamo un’idea di frugalità, di riuso e riciclo non solo di materiali ma anche di luoghi. Questo sarà un progetto che avrà un minimo impatto infrastrutturale. Non c’è la necessità di costruire nuove infrastrutture. Sarà il quartiere albanese dei Sassi, forse l’area più in disuso e più in cattive condizioni in questo momento, a ospitare questo museo diffuso grazie solo a un minimo intervento infrastrutturale in cui si riqualificherà una parte dei Sassi.
Avete già un’idea di budget per realizzare tutti i programmi?
Il budget complessivo è di 54 milioni di euro, di cui 36 milioni sono stati già stanziati dalla Regione, sono soldi garantiti. I restanti vengono in parte da privati e in parte arriveranno dallo Stato. Il livello di entusiasmo è tale per cui arrivare a 54 milioni di euro sarà relativamente semplice, grazie anche all’aiuto di imprese e finanziamenti privati. È un progetto che volutamente abbiamo tenuto con un budget relativamente basso. Sono un sacco di soldi, ma per una Capitale della Cultura non è molto. Se paragonato ad esempio a quanto è stato speso a Marsiglia, è circa un decimo. Questo perché crediamo che avere un grande impatto non sia una questione di grandi risorse, è una questione di come vengono implementate.
Oltre a essere un architetto di formazione, vieni da esperienze fortemente contaminate con l’architettura. Sei stato direttore di Domus e della galleria newyorchese Storefront for Art and Architecture. Dal punto di vista architettonico, cosa vedremo a Matera 2019?
C’è la riqualificazione del Mulino Alvino, un grande panificio nella prima metà del XX secolo che è stato abbandonato e che adesso l’architetto Mattia Antonio Acito sta riqualificando. Da parte nostra, ho portato l’idea di riattivare un progetto poco conosciuto di Renzo Piano, l’Arca di Prometeo, costruito agli inizi degli Anni Ottanta, commissionato dalla Biennale di Venezia per ospitare un’opera musicale di Luigi Nono. Un teatro smontabile, mobile, ideato per essere ospitato nella Chiesa di San Lorenzo a Venezia per poi muoversi attraverso l’Europa. Invece è stato utilizzato un unica volta a Milano e poi è finito in un capannone. È lì da oltre vent’anni. Piano per anni ha fatto di tutto per riattivarlo, senza successo. Noi vorremmo riprenderlo, portarlo a Matera, trovargli uno spazio adeguato per la sua riattivazione. Più che introdurre nuovi progetti, cerchiamo di usare al meglio i grandi progetti del passato.
C’è quindi il coinvolgimento diretto di Renzo Piano in questo progetto di riattivare l’Arca di Prometeo?
Sì, devo dire che lui è un po’ scettico sulla possibilità che questo possa avvenire, ma io rimango fiducioso, sono sicuro che possiamo farcela.
Zaira Magliozzi
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