Incroci e innesti. L’arte e i suoi consanguinei
È una storia ormai consolidata quella che lega l’arte e i brand di lusso. Ma raramente ci si chiede cosa ci raccontano queste commistioni? E in che modo rendono la contemporaneità sempre più elusiva e affascinante. Qui trovate un punto di vista, fra Jeff Koons e Pierre Bourdieu, Francesco Vezzoli e Michele Tamma.
L’accadere della contemporaneità ha assunto le sembianze di una fitta ragnatela composta da così tante commistioni e sodalizi fra diversi ambiti che sembra quasi impossibile riannodare il filo della matassa. Talvolta è anche più complicato individuare se il concetto di ambito sia ancora valido, poiché lo sviluppo è così composito che appare riduttivo etichettare un rapporto come una contaminazione tra ambiti diversi o come un trasbordo da un mondo all’altro. Ciò è comprensibile se, accettando l’idea simmeliana che il luogo è definito dall’insieme delle relazioni che al suo interno s’instaurano, applichiamo arbitrariamente questo ragionamento al nostro campo d’interesse. Possiamo allora intravedere due entità distinte per il luogo dell’arte.
L’entità fisica è la città, il luogo materiale in cui l’arte prende vita e dove trova applicazione anche sotto forma di economie della creatività e della conoscenza. Secondo alcuni studiosi di derivazione bourdiana, la relazione in essere tra una determinata città e lo sviluppo dell’universo artistico che la connota è profonda sia per quanto riguarda il complesso delle forme artistiche che vi s’instaurano, sia per l’edificazione di centri di studio, pubblici e privati.
L’entità astratta è il concetto stesso di arte così come siamo tradizionalmente abituati a riconoscerlo, e per facilitare il pensiero possiamo immaginare una grande ellisse che avvolge una serie di ellissi minori: le arti visive, la moda, la musica, la danza, il teatro, il cinema e via dicendo. Queste, come cellule al microscopio, interagiscono tra di loro comportando spesso delle annessioni, a volte degli allontanamenti e nella norma tendono a un reciproco perscrutarsi.
È laddove, però, sfumano i contorni per annettersi che diviene interessante osservare le conseguenze di queste dinamiche di affiliazione. Le interazioni tra l’arte e la moda, l’arte e la musica, l’arte e il cinema o tra tutti questi mondi insieme aumentano il terreno sul quale s’innestano in maniera così esorbitante che i fattori con cui analizzare la questione non attengono più solo a ragionamenti di tipo estetico-filosofico. Lo scenario s’intensifica e ramifica altrove, verso terreni più fertili, magari anche vergini, tracciando così una struttura relazionale basata su fattori e valori di altra natura: sociali, consensuali, economici.
Come se non fosse abbastanza, a rendere questa struttura ancora più fitta c’è la Rete: il palcoscenico mobile, istantaneo ed efficace con cui raggiungere il più alto consenso social. Ma la Rete che gode solo idealmente della possibilità di essere infinita è, in verità, specchio del mondo contemporaneo, totalmente entropica.
Di fatto, online o offline questi agglomerati di mondi concettuali incamerano nuove idee, sviluppi e possibilità per cercare di bucare l’entropia dell’eccesso o, nel caso delle nicchie di lusso, per rimarcare il proprio statement.
Non a caso, diverse sono le tipologie di legami individuabili tra i vari brand di lusso e gli artisti, che vengono reclutati con l’intento di creare inediti scenari immaginifici attorno ai prodotti del brand di turno. Ancora più efficace se l’unione avviene con artisti che nel tempo e con il loro lavoro sono diventati brand di se stessi, ovvero hanno creato attorno alla loro figura un’aurea di spendibilità. Come non pensare alla combinazione tra il marchio francese Dom Pérignon prodotto dalla Moët et Chandon e uno degli artisti più quotati, chiacchierati, discussi dell’arte contemporanea, Jeff Koons? In questa occasione viene raggiunta e travalicata la definizione dei prodotti della cultura materiale,dove “la fisicità del prodotto che incorpora la cultura, i saperi, la tradizione, specifici del territorio d’origine costituisce il ‘veicolo’ per il trasferimento in altri contesti di fruizione” (Michele Tamma).
La Ballon Venus – la “Venere del XXI secolo” – riprodotta per una tiratura di seicentocinquanta esemplari, creata per contenere la preziosa bottiglia di Dom Pérignon del 2003, esprime perfettamente la logica economica e sociale insita in questa unione. Emana nella sua lucentezza a specchio e nell’eccentricità del suo colore fucsia i canoni barocchi del linguaggio di Jeff Koons, s’identifica nello status quo di un brand fortemente identitario e acquisisce valore riconoscibile e trasmissibile, un’allegoria culturale di opulenza e fertilità, grazie alla presenza di un’icona globale come la Venere di Willendorf.
Prima di arrivare alle joint venture del lusso, è stato lungo il cammino delle collaborazioni nonché delle vicissitudini tra l’arte contemporanea e i mondi a lei consanguinei. In particolare le relazioni fra artisti e couturier hanno rivelato quanto fosse spasmodico l’interesse da parte della moda, legata da Charles Frederick Worth al fluire delle stagioni, di affiancarsi all’arte per poter almeno sfiorare la dote del senza tempo che consegna un artefatto all’eternità.
Oggi il valore dell’eternità ha tramutato sembianze: questo non vuol dire che riuscire ad attraversare la storia non abbia più un certo fascino, piuttosto che l’eternità è stata soppiantata dalla possibilità tutta contemporanea di esistere qui e simultaneamente in tanti altri posti. Inoltre, l’interesse spasmodico che per lungo tempo ha afflitto le notti insonni dei signori della moda non è più unidirezionale, bensì circolare. Questa esigenza di simultaneità espansa pervade ognuna delle ellissi minori sopra indicate.
Certo l’arte per vocazione non può metabolizzare i valori transitori della moda, però questo mondo così ben calibrato stuzzica l’arguzia e gli animi di molti artisti proprio per le modalità operative con cui si rivolge all’esterno. Dal dibattuto e ampiamente sviscerato effetto di crossover si può parlare di un più appropriato effetto di mimesi comportamentale.
Elementi come il glamour, lo scintillio della patinatura, il riflesso dorato di una carriera vincente possono essere scambiati con la qualità; si attribuisce alla connessione con lo starsystem, di cui la moda per lungo tempo ha avuto l’esclusiva, una forma possibile di linguaggio con cui esprimersi. La fama, il successo, quel “qui e ovunque” sono le molle scatenanti con cui azionare il contatore contemporaneo dell’eternità.
Pensiamo al luminescente e stratificato mondo che Francesco Vezzoli ha costruitointorno al suo fare. Lavori che collegano celebrities contemporanee, regine del pop come Lady Gaga o attrici hollywoodiane come Natalie Portman a prassi artistiche d’altri tempi – il cucito, la statuaria, la ritrattistica, tanto per citarne qualcuna -, tutto coniugato attraverso la cooperazione di ulteriori mondi o campi sociali (come direbbe Bourdieu) diversi.
Osserviamo con quest’ottica il complesso di realtà coinvolte per la mostra Vezzoli Primavera/Estate svoltasi a Firenze tra il mese di giugno e luglio di quest’anno a cura di Francesco Bonami. Il titolo restituisce nella sua immediatezza buona parte delle sinergie messe in campo, ma non svela tutto. Certamente restituisce la dimensione organizzativa e promotrice della mostra, che è quella della Fondazione Pitti Discovery, un’istituzione attenta e costituita proprio per registrare quelle dinamiche di crossover tra moda, arte, architettura e linguaggi di comunicazione che permeano la contemporaneità. Restituisce anche lo scenario che metteremo sullo sfondo di questa mostra, ma che rimane un punto fondamentale, ovvero l’occasione in cui questa si è collocata: il 60esimo anniversario di Firenze Hometown of Fashion. Questi due dettagli insieme immettono tutto l’apporto proveniente dal segmento moda presente nel progetto. Il corpus delle opere si snoda in tre case museo: Museo Bardini, Museo di Casa Martelli e Museo Bellini. Non tre sedi museali vere e proprie, bensì tre case di importanti collezioni private che, aprendo le loro porte al contemporaneo, ricordano quanto l’Italia sia debitrice della cultura del mecenatismo. Un argomento, quest’ultimo, di grande attualità per quanto riguarda il restauro del nostro patrimonio, ma non per le attività legate al contemporaneo. Le opere di Francesco Vezzoli, alcune realizzate appositamente per l’occasione, nella fattezza strizzano l’occhio all’arte dei manuali, mentre i più vividi dettagli rilanciano la contemporaneità attraverso quelle declinazioni tipiche della poetica di Vezzoli, che prende a prestito icone provenienti da altri ambiti. Il titolo stesso e le opere in sosta tra passato e presente restituiscono quella peculiarità del suo lavoro di trattenere e conciliare gli opposti nonché la capacità di mettersi al centro di progetti ibridi, stretti sulla correlazione di mondi concettuali, dal grande impatto mediatico e comunicativo.
Siamo nell’epoca di una contemporaneità volutamente elusiva, giocata su combinazioni tra ambiti differenti che, intersecandosi, non perdono di significato; anzi, il continuo centrarsi altrove dal proprio contesto d’origine comporta un continuo ridefinirsi. Ibridarsi senza mai farlo realmente. In questo senso diventa davvero affascinante anche la lettura dell’operazione compiuta dalle più importanti case di moda che in questi ultimi anni si sono costituite come fondazioni d’arte. Non parliamo di quei brand che hanno istituito delle realtà museali per contenere la propria storia, ma di quei brand che si sono aperti al mondo dell’arte creando forti istituzioni private. Sono entrati con autorevolezza in un mondo che tra l’altro, dalle avanguardie in poi, con lenti e risonanti smottamenti ha fatto di tutto per sciogliersi dai diktat delle istituzioni.
Interessante lo è ancora di più quando una di queste istituzioni private – la Fondazione Prada – marca una notevole distanza, concettualmente parlando, da tutte le altre mettendo in scena tra le fastose quinte di Palazzo Ca’ Corner della Regina, a Venezia, non una mostra del passato, ma la mostra che ha segnato l’avvio della pratica curatoriale in chiave contemporanea: When Attitudes Become Form di Harald Szeemann (1969).
È doveroso sottolineare l’approccio filologico e il conseguente merito didattico che ne sono discesi, la volontà di commisurarsi con il riadattamento di una mostra d’arte contemporanea in uno spazio fortemente connotato da un passato neoclassico e la sfida di provare a rimettere in scena opere che con i tempi odierni e le sue norme di sicurezza sono ridotte giusto a un perimetro che ne segnala la presenza.
Ma l’aspetto davvero avvincente dell’operazione è contenuto nelle parole che aprono la prefazione del pregevole catalogo della mostra usate da Miuccia Prada: “Quando ho proposto l’idea di fare il remake della mostra ‘When Attitudes Become Form’…”. Ovvero una voluta ammissione di responsabilità da parte del volto stesso del brand Prada, che non manda avanti il suo chief curator, Germano Celant (sì, certo, la mostra è a sua cura), ma vuole stare in prima battuta, davanti alla trincea. Questa volontà, questa esigenza marca idealmente quanto con questa scelta, più di altre, il brand abbia acquisito ancora più valore e prestigio, se non eterni, certamente duraturi per il suo portato storico e storico-artistico.
La mostra-reenactment When Attitudes Become Form: Bern 1969/Venice 2013 rappresenta all’interno di questo scenario tracciato la collimazione più esemplificativa, suggestiva e chissà se riuscita di due mondi diversi che, combinati insieme, producono cause ed effetti tanto nel proprio ambito quanto nell’altro.
Giorgia Noto
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #21
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