In un casinò, la regola principale è di continuare a far giocare i
clienti, e di farli tornare il giorno dopo. Più giocano e più perdono.
Alla fine becchiamo tutto noi.
Sam “Asso” Rothstein
Chi controlla il passato controlla il futuro:
chi controlla il presente controlla il passato.
George Orwell, 1984 (1949)
La questione che ruota attorno alla “creazione del pubblico” è mal posta, perché deriva da una concezione imprenditoriale risalente a più di vent’anni fa. Non ha senso, infatti, chiedere agli spettatori (al pubblico) quali sono i loro desideri e le loro esigenze in relazione alla cultura. La “fame” di nuovo è l’esigenza unica, e uno non sa di che cosa ha fame finché non ha provato, riprovato, sperimentato, assaggiato.
Le risorse culturali non sono beni finiti.
La cultura non è “semplicemente la somma di parecchie attività, ma un modo di vivere”
(Thomas Stearns Eliot, Appunti per una definizione della cultura, 1948).
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I progetti calati dall’alto non funzionano: ricadono sempre, maledettamente, in una versione ancillare della cultura rispetto all’economia; in un’interpretazione economicistica obsoleta.
“La letteratura light, il cinema light e l’arte light, dà al lettore e allo spettatore la confortevole impressione di essere colto, rivoluzionario, moderno, e di essere all’avanguardia, con uno sforzo intellettuale minimo. In questo modo, la cultura si propone come avanzata e di rottura, in verità diffonde il conformismo attraverso le sue manifestazioni peggiori: il compiacimento e l’autosoddisfazione. Nella civiltà dei nostri giorni è normale e quasi obbligatorio che la cucina e la moda occupino buona parte delle sezioni dedicate alla cultura e che gli ‘chef’ e gli ‘stilisti’ abbiano il ruolo di protagonisti che un tempo spettava a scienziati, compositori e filosofi”
(Mario Vargas Llosa, La civiltà dello spettacolo, 2012).
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Audience development = formazione del pubblico.
Educazione al presente.
Esposizione dei fruitori a dosi massicce di contenuti innovativi e creativi: radiazioni culturali.
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Ancora sulla questione generazionale. Pensa anche a chi ha vissuto i tardi anni Sessanta e soprattutto i Sessanta un po’ passivamente (vale a dire, la maggioranza degli italiani): che effetto può aver fatto, nel corso dell’ultimo trentennio, l’edificazione di questa mitografia del periodo? Questa discrepanza assurda e desolata tra la propria percezione e la “Storia” così come è stata edificata, la percezione agiografica diffusa nei media e nell’immaginario di una classe: una e una soltanto.
La sensazione che le cose non fossero poi andate esattamente così; che aspetti marginali, minuscoli, periferici siano stati impropriamente, e opportunisticamente, ingigantiti fino a occupare il centro della scena e della memoria; e che, magari, gli aspetti più importanti, significativi, interessanti e rilevanti – gli aspetti veri – siano stato tutto sommato sepolti, passati sotto silenzio, rimossi. E sistematicamente travisati.
“…da anni in Italia non si discute più in modo serio di niente. Non certo del Sessantotto e tanto meno degli anni Settanta. Niente affatto. Rimane solo una sorta di eterna nostalgia, il rimpianto per la propria perduta e inimitabile gioventù. (…) Con il rimpianto, creano il mito di una contestazione che ha cambiato l’Italia e modernizzato il paese. Un mito fragile e ingannatore, basato perlopiù su racconti non verificabili e che anzi la realtà sociale e culturale sembra smentire. Un mito riguardante una tradizione non comprovata, a metà strada tra verità storica e invenzione leggendaria. Un mito così sedimentato nella quotidianità mediatica che non si può nemmeno pensare di metterlo in discussione. Si manifesta come un effetto di risonanza, un gesto condizionato, quasi pavloviano nelle sue dinamiche, che scatta a seconda delle sollecitazioni storiche, politiche o anche solo di fronte ai grandi fenomeni di costume”
(Alessandro Bertante, Contro il ’68, 2007).
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Non c’è quasi nulla di più triste che le scarpe da ginnastica ai piedi dei vecchi.
“Non vedo ragione perché il decadere della cultura non debba procedere assai oltre, e perché non possiamo anche prevedere un periodo d’una certa durata del quale sarà possibile dire che non ne avrà alcuna”.
(Thomas Stearns Eliot, Appunti per una definizione della cultura).
Christian Caliandro
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