Inpratica. Noterelle sulla cultura (VII)
Settima puntata del ciclo di articoli che la rubrica Inpratica ha intitolato “Noterelle sulla cultura”. E qui ci mette di fronte a un fatto, che è tale anche se non ci piace, anche se è sbagliato. E fare i conti con la realtà è il primo passo per modificarla.
A mezzogiorno, il palazzo brulicava di signori
d’ogni età e d’ogni sesso: era un girare,
un rimescolarsi di gran cappe, d’alte penne,
di durlindane pendenti, un moversi librato
di gorgiere inamidate e crespe, uno strascico
intralciato di rabescate zimarre.
Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42)
Diciamoci la verità, la verità che tutti sappiamo ma che quasi tutti amiamo nasconderci: l’arte (la letteratura, la narrativa, l’arte di raccontare storie sulla pagina e sullo schermo; l’arte e la cultura visiva, l’arte di costruire e di articolare immagini) sta divenendo rapidamente obsoleta, e viene sostituita gradualmente – ma molto velocemente, se si considera questa trasformazione da un punto di vista storico – da un altro tipo di immaginario, da un altro tipo di tecnica e di ideologia culturale che non sembrano avere un gran bisogno di complessità e di intelligenza.
“Non vedo ragione perché il decadere della cultura non debba procedere assai oltre, e perché non possiamo anche prevedere un periodo d’una certa durata del quale sarà possibile dire che non ne avrà alcuna” (Thomas Stearns Eliot, Appunti per una definizione della cultura, 1948): questo tempo, come giustamente ci avverte Mario Vargas Llosa – in un testo certamente stracolmo di pecche, ingenuità, errori di prospettiva e di valutazione, ma nonostante questo sempre molto stimolante, come La civiltà dello spettacolo (2012) – è il nostro. È arrivato, è qui: è l’aria stessa che respiriamo, l’atmosfera psichica in cui viviamo costantemente immersi, il nostro ecosistema fisico morale e cognitivo.
La temperatura spirituale, per usare un concetto del tutto fuori moda.
Ogni elemento del paesaggio urbano, umano, mediatico, culturale attorno a noi ci segnala questa temperatura. Ci parla di questa ideologia: ci parla con la sua lingua (neolingua), con i suoi aggettivi (sistematicamente orrendi e fuori luogo: sbagliati), con le sue ideuzze e le sue distrazioni da quattro soldi. Tutto ci dice: stupidità; ottusità; immaturità.
Eppure sarebbe altrettanto stupido, ottuso e immaturo negare che tutto questo sia vero. Può non essere giusto (e non lo è): ma negare un intero processo storico come se non fosse mai avvenuto e come se non stesso ancora – sempre – avvenendo, non è affatto degno né della critica, né di qualunque operazione intellettuale. Occorre innanzitutto riconoscere con esattezza la nostra posizione nel mondo, nella civiltà, nel tempo: senza questa autocollocazione, senza questo autoposizionamento, questo autoriconoscimento, qualsiasi altra attività è destinata in partenza ad essere velleitaria e ininfluente.
Allora, qual è la caratteristica dell’opera maggiormente messa a rischio dagli ultimi decenni di evoluzione culturale? La possibilità stessa dell’oggetto culturale di esercitare un’azione trasformativa sulla realtà. Il postmoderno in questo senso si è impegnato in una formidabile attività di delegittimazione, di discredito nei confronti di questa peculiarità, giungendo addirittura a negare che l’opera d’arte abbia mai davvero agito sul mondo e sugli uomini. Eppure, noi sappiamo per certo che non è così. Come ci dice Harold Bloom, sappiamo per certo che gli esseri umani moderni – che la coscienza moderna come coscienza che riflette su se stessa e che fa di questa autoriflessività il suo racconto – sono stati inventati in larga parte da William Shakespeare e da altri (pochi) scrittori “canonici” (Dante, Cervantes, Milton, Dickens, Tolstoj, Joyce, Proust, Kafka).
Prima di vivere nella sua e nella loro immaginazione, noi non esistevamo affatto.
Prima di vivere nella pittura del Seicento (Caravaggio) e dell’Ottocento (Turner, Courbet, Monet), la percezione del mondo così come la conosciamo, così come ci è familiare non esisteva.
Aver impiegato anni e decenni in questa immane opera di smantellamento, di demolizione dalle radici, ha avuto un unico scopo neanche troppo recondito: quello di negare recisamente una possibilità. La possibilità della cultura e dell’oggetto culturale di inventare e creare mondi reali. La possibilità di scardinare la visione in base alla quale il futuro non è un progetto, ma è un programma: determinato a priori, deciso nel presente e per il presente.
L’opera d’arte – che è contemporanea e che articola il presente, gli dà un nome e lo determina – al tempo stesso lo sconfessa e lo disconosce dal momento che essa vive nel futuro. L’opera d’arte vera e non presunta, coraggiosa e non pavida, feroce e non spuntata, non può mai davvero venire a patti con il suo tempo – che la disgusta profondamente – ma solo contraddirlo, sin dalle fondamenta, caparbiamente. Frantumarlo, eroderlo, consumarlo, essiccarlo – per superarlo costruendo un altro tempo, che sia realmente suo.
Christian Caliandro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati