La Trattativa. L’impresa ambiziosa (e irrisolta) di Sabina Guzzanti
Tra la prima a Venezia e un tweet polemico di solidarietà a Riina e Bagarella, contro i “traditori della istituzioni”, c’è di mezzo una valanga di opinioni, recensioni, critiche e approvazioni. La Trattativa, il film di Sabina Guzzanti sui rapporti tra Stato e mafia, non ha trionfato al botteghino e ha spaccato la critica. Proviamo a capire perché
In principio una citazione. Elio Petri, 1970, un cortometraggio in bianco e nero dedicato alla drammatica morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli. Cinema politico, di impegno civile, di ricostruzione storica e riflessione critica. Undici minuti secchi e spogli, apparecchiati di fronte alla telecamera. Gli attori, dichiarandosi tali, svelano al pubblico la veloce mise en scène del misfatto: “Siamo un gruppo di lavoratori dello spettacolo, ci proponiamo attraverso l’uso del nostro specifico, il comportamento degli attori, i registi, i tecnici, di ricostruire le tre versioni ufficiali, cioè quelle avallate dalla magistratura, sul suicidio, il presunto suicidio, dell’anarchico Pinelli”.
Comincia da qui, Sabina Guzzanti, per definire schema e impronta de La Trattativa, il suo film più impegnato e impegnativo, presentato fuori concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Seduta su un set teatrale, circondata da un gruppo di attori, la Guzzanti fa eco all’incipit di Gian Maria Volonté nel corto di Petri: “Siamo un gruppo di lavoratori dello spettacolo e abbiamo deciso di mettere in scena i fatti finora noti sulla faccenda della trattativa Stato-mafia…”.
I fatti sono quelli riferiti alla stagione delle bombe, piazzate da Cosa Nostra tra il ’92 e il ’93: dagli omicidi di Salvo Lima e dei giudici Falcone e Borsellino, a una serie di attentati sul territorio nazionale. Col termine “trattativa” si indica una presunta negoziazione avvenuta tra lo Stato italiano e la mafia per tentare di mettere fine a quell’offensiva furiosa, determinata dall’avvio del maxiprocesso e dalla probabile presa di distanze della vecchia classe politica rispetto agli interessi dei mafiosi: gli uomini d’onore si sarebbero sentiti minacciati e non tutelati. Per la prima volta. Stritolati tra la morsa dei tribunali e l’indifferenza degli ex sodali di governo.
La negoziazione, avvenuta per tramite dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, emblema dell’annosa liaison tra ambiente politico e ambiente malavitoso, avrebbe partorito la revoca del 41bis per trecento mafiosi non di rango: per lo più un pugno di mezze calzette, pescate tra le retrovie. Il famoso “papello”, in cui erano elencati tutti i favori richiesti dalla Cupola, non avrebbe avuto altro riscontro, a parte il mancato arresto diProvenzano nel 1995, di cui – secondo l’accusa – i Ros favorirono la fuga.
Questa, a grandi linee, la storia. Che la Guzzanti ripercorre col suo film, partendo da una certezza: la trattativa Stato-mafia è esistita, nei termini ipotizzati dai PM palermitani alla guida del processo, e ha sancito la capitolazione della Repubblica di fronte ai poteri loschi, nel segno di un’antica e inscindibile triade diabolica formata da politica, mafia e massoneria.
Un processo ancora in corso, che ha diverse falle e lunghissimi impasse. Poche prove concrete e una caterva di indizi sinistri. E che ha anche illustri avversatori, convinti che l’impianto non regga e che il côté mediatico della faccenda sia più forte di quello giuridico: dall’esimio giurista Giovanni Fiandaca (“Interessi tutt’altro che nobili e aspetti di forte ambiguità hanno contribuito a rendere poco chiaro e poco trasparente lo scenario di allora”, tuttavia, “ciòè sufficiente per escludere la possibile liceità di concessioni a Cosa nostra, trasformando negoziatori istituzionali operanti a fin di bene in una banda di delinquenti in combutta con la mafia?”) allo storico Salvatore Lupo (“la trattativa c’è stata, solo che purtroppo [per i boss, N.d.R.] qualcuno si è rimangiato la parola”), passando per il magistrato Giuseppe Di Lello, ex membro del pool di Falcone, che definendo il processo una “commedia pirandelliana”, ha affermato: “È inquietante che il Capo dello Stato sia diventato il bersaglio di questa variegata compagnia di giro composta da professionisti dello spettacolo, del mondo editoriale e anche da magistrati che pensano di essere depositari esclusivi di una tragica e nello stesso tempo esaltante stagione della vita della nostra Repubblica”.
Di questo fronte critico, la Guzzanti non dà traccia. Nelle vesti di regista, sceneggiatrice e attrice (giusto in qualche cammeo) raccoglie e organizza documenti, testimonianze, informazioni. Tutti dati rigorosi e comprovati. Utili per imbastire quella che si configura in parte come un’inchiesta di taglio giornalistico, in parte come una ricostruzione storica. Con una tesi precisa a fungere da stella polare. Sposando la teoria dell’accusa, l’autrice si pone con chiarezza in quel filone di pensiero che, nell’immaginario comune, ha i volti di Marco Travaglio e Antonio Ingroia.
Tutto lecito. Dal momento che il film si dichiara fin da subito come una ricostruzione scenica, e dunque soggettiva. Un progetto di cinema epico, che riprende la formula brechtiana del disvelamento e del coinvolgimento del pubblico, attraverso una narrazione interlocutoria che elimina ogni traccia di fiction: l’attore mette in scena se stesso, ripercorrendo la storia nella nudità scandalosa e solenne del teatro.
E qui sta la debolezza dell’operazione Guzzanti. Che nel tentativo di fondere, in un format ibrido, voci, linguaggi e approcci differenti, in parte fallisce nell’impresa. Consegnando allo spettatore una sensazione di perpetua oscillazione: confuso, disorganico, salvato dalla meticolosa opera di documentazione, dal ritmo che tiene, dalla splendida fotografia di Daniele Ciprì, da alcune belle interpretazioni (su tutte quella di Enzo Lombardo, intensisimo nei panni di Gaspare Spatuzza), nonché dalla passione civile che anima il progetto, il film resta però un corpus irrisolto. Titanico, ambizioso, persino presuntuoso nella sua volontà di verità.
Dentro c’è il giornalismo, la vocazione storica, la cronaca e la visione faziosa, gli sketch satirici, persino l’impaginazione grafica dei tipici servizi da talk show televisivo; e poi c’è il teatro, l’immaginazione, il romanzo, lo sbeffeggiamento, la gag comica e la caricatura (evitabilissima la maschera berlusconiana, con una Guzzanti travestita come ai tempi di Tunnel e Avanzi, pesante l’interpretazione macchiettistica del pur bravo Filippo Luna nelle vesti di Massimo Ciancimino, gratuita la versione stralunata e goffa del procuratore Giancarlo Caselli). C’è insomma un allegro e ben studiato guazzabuglio, dagli esiti controversi. Sicuramente frastornanti. Non c’è, di certo, la poesia. Quello scarto lirico, emozionale, epico (per l’appunto) che da solo riesce, in un luminoso slancio di sostanza e di linguaggio, a staccare il corpo del film dal giogo del reale, in un gesto d’innovazione e di tessitura letteraria.
Il confronto col Belluscone di Franco Maresco, l’altro film politico presentato a Venezia, è inevitabile e illuminante. Basti pensare al modo in cui, entrambi, lavorano con la dimensione dell’umorismo. Si ride con i siparietti della Guzzanti, si ride con i cantanti neomelodici di Maresco. Ma la risata indotta da lei resta un fatto di superficie, di comicità televisiva, puntuta, saccente, qualche volta fuori registro. Satira compiaciuta, che ha i tempi del cabaret e che non conosce la malinconia, lo struggimento, il guizzo tagliente e geniale.
All’opposto, la risata che il cinema di Maresco induce, in una maniera assolutamente propria, è colma d’amarezza, d’orrore e di stupore. Di inquietudine. Capace di lasciare, dietro di sé, un’eco luttuosa: si ride d’amarezza, di consapevolezza critica, ma anche di tenerezza e di compassione, dinanzi alla bellezza storta di quell’esercito di freak attraverso cui la realtà si rivela, impietosa. Perché il cinema di Maresco si muove, sempre, tra gli opposti della grazia e della caduta, della morte e della vita, dell’eccesso e della desolazione, dei corpi straziati e dei fantasmi evocati, del peccato atavico e di una umana redenzione. Anche quando parla di politica e di attualità, il regista siciliano affonda le mani nella trama nebulosa dell’esistenza. Calpesta la palude delle cose e la trasforma in cinema. Ed è qui, in questo intelligente stacco, che il gioco della commistione tra generi, della promiscuità tra verità e finzione, si risolve. D’incanto. Nel parto di una scrittura nuova, autosufficiente, collocata sul piano della poesia.
Dimensione che il lavoro della Guzzanti non raggiunge. La Trattativa, esempio di docufiction confezionato con abilità, non è esattamente cinema, non in senso stretto e alto. Incapace di far dimenticare del tutto il recinto un’Italietta greve, rimbalzata tra i canali di uno show mediatico quotidiano. Lo stesso che inghiotte, tra blog di partito, giornali e ospitate da Santoro, anche un processo come quello della trattativa Stato-mafia. Tirato da destra e da sinistra, a uso e consumo di questo e di quello. Un uso politico, persino. Nell’inarrestabile, gaudente, febbrile corsa verso la demolizione (o l’ipocrita assoluzione) delle istituzioni democratiche. Colpevoli, troppe volte, ma non per questo trasformabili in spauracchio per tutte le stagioni. Affinché una faccenda, infinitamente delicata e complessa, non diventi strumento nelle mani del populista di turno, in cerca di consensi elettorali. E la verità non resti ancora sul fondo, come l’ultimo degli optional.
Helga Marsala
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