Marco Basta. Dodici dita in copertina
Ha studiato all’Accademia di Brera per poi frequentare un corso d’illustrazione digitale. Dall’origine agreste ha ereditato la fascinazione per la natura: quella addomesticata degli orti botanici e quella selvaggia e incontrollata. Ha una passione per la tradizione decorativa giapponese e indiana, ma a dare corpo alle sue opere sono gli incontri, la strada o le diverse tonalità del cielo carpite mentre col suo taxi attraversa di notte la città. Sono opere che vanno osservate da vicino perché, afferma l’artista, “un gesto minimo può essere molto forte”.
Che libri hai letto di recente e che musica ascolti?
Prediligo i racconti brevi come Notturno indiano di Antonio Tabucchi. Posso ascoltare Bombino come anche Pino Daniele e molta radio.
I luoghi che ti affascinano.
L’Oriente mi ha affascinato moltissimo e l’ho frequentato, ma anche i luoghi di culto, Genova e le grandi architetture.
Le pellicole più amate.
Ho amato molto Mamma Roma di Pier Paolo Pasolini, Vive L’Amour di Tsai Ming-liang, Palombella Rossa di Nanni Moretti e non mi stanco mai di riguardare Il grande Lebowski dei fratelli Coen.
Artisti guida.
Più che da artisti mi faccio guidare da alcune opere. Come la serie dei Fabric Works di Louise Bourgeois, la scoperta dei disegni di José Antonio Suárez Londoño e le ceramiche di Luigi Ontani.
Hai subito il fascino della decorazione orientale. Cosa ti ha colpito di quella tradizione secolare?
Della cultura giapponese, ma anche di quella indiana, mi ha attratto il fortissimo legame che esiste fra la decorazione e la quotidianità. La vita è davvero scandita e circondata dal disegno. Ed è interessante come la tradizione possa adattarsi alla contemporaneità.
Hai una fascinazione per la natura, quella addomesticata degli orti botanici e quella più selvaggia e incontrollata. Che cosa cerchi nella natura?
Nella natura che ho frequentato e certamente disegnato ho trovato spesso un’idea di limite. È questo che mi affascina. Quel confine che esiste tra giardino e foresta, tra escursionismo e alpinismo. Il fatto che la natura possa essere allo stesso tempo bella e rassicurante, ma anche crudele, difficile e spietata.
Con l’opera Giardino, in cui “ricostruisci” porzioni di stanze dove hai vissuto, la superficie di feltro non è più soltanto un elemento decorativo ma si fa tridimensionale. È un tentativo di “liberare” il disegno nello spazio?
In questo lavoro c’è prima di tutto il tentativo di restituire una memoria architettonica, la forma, i vuoti, gli angoli delle case. Confrontandosi quindi con la tridimensionalità di questi luoghi direi che il disegno più che liberarsi deve fare i conti con lo spazio.
Come è nata la serie delle Piogge?
Le Piogge sono nate dalla necessità di registrare e di dare un colore a quel tempo acquoso e dilatato che io vedo nella pioggia e che tanto mi affascina. Le piogge poi sono soprattutto qualcosa che si avvicina più a una sorta di campionario di stati d’animo, e le stagioni un modo per dare loro un carattere.
Le tue opere vanno osservate da vicino, perché, come mi hai detto, “un gesto minimo può essere molto forte”. Così come un piccolo evento può cambiare la vita.
Se un piccolo evento cambia la vita, allora diventa un grande evento. Per me il guardare con attenzione è una possibilità di svelare qualcosa. Mi piace molto quando un piccolo dipinto riempie lo spazio.
Nel tuo lavoro dominano i contrasti. Ad esempio, crei i disegni digitalmente ma li stampi su carte fatte a mano che spesso incidi.
Il contrasto, la differenza possono essere anche i luoghi dai quali proviene un immaginario. Io personalmente per vivere faccio il tassista che mi appare sempre molto contrastante con il lavoro dell’arte. Eppure da lì arriva un carattere fortemente umano che credo il mio lavoro contenga. Le sfumature che uso arrivano dalle molte albe viste dal parabrezza.
Hai realizzato un paio di vasi in ceramica e hai fatto una residenza al Museo Carlo Zauli di Faenza. Cosa ti attrae di quel materiale?
L’argilla è fantastica perché è un materiale molto semplice, terra in fin dei conti, ma dal potenziale incredibile. Ricettiva, complessa, sapiente, antica ma soprattutto difficile. Recentemente ho iniziato ad usarla anche come pigmento per realizzare dei disegni su muro che ripercorrono la simbologia dei tilaka indiani, i segni che gli hindu usano dipingersi sulla fronte.
Per le tue opere quanto è importante il display?
Credo che ogni opera porti con sé un preciso display, un modo in cui dev’essere guardata o attraversata. Difficile a volte capirlo. Sicuramente nella mia ricerca è importante quando il display aggiunge narratività, creando continuità tra opere che altrimenti sembrerebbero singoli episodi, mentre invece fanno parte di un unico racconto. Cerco comunque di essere sempre molto essenziale, non m’interessa arredare gli spazi.
Com’è nata l’immagine inedita per la copertina di questo numero?
Ho cercato di realizzare un’immagine pensandola come una vera e propria illustrazione da copertina, ma anche come una sorta di caricatura del mio lavoro. Per farlo ho preso in prestito quel carattere seducente e popolare che anima le cartoline votive, che siano sgargianti come quelle hindu o laconiche come quelle cristiane.
Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #21
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