Se le difficoltà diventano fermento creativo. Parla Luca Fiorito
Cosa e quanto è rimasto oggi nel panorama italiano del design della vivacità creativa dei primi Anni Settanta? Siamo stati in grado di raccogliere l’eredità di quelle avanguardie che condussero il design italiano sulla frontiera della sperimentazione, della progettazione e – perché no? – della provocazione artistica e culturale? L'editoriale di Luca Fiorito.
Il design, più di qualunque altra espressione di creatività, si è sviluppato nel segno dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, per dirla con Walter Benjamin. In altri termini, possiamo affermare che il design, nato nell’alveo dell’architettura, è riuscito poi a trovare forza e identità disciplinare allontanandosi dalla propria casa madre, e qualche volta persino negando le proprie origini. Tanto la sua caratteristica di riproducibilità seriale quanto la sua quotidianità d’uso collocano infatti l’oggetto di design in una sorta di limbo sospeso fra arte, moda, cultura, mestieri, tecnica, industria e quant’altro ancora. Ed è proprio grazie a questa sua multidimensionalità che il design finisce per diventare specchio fedele delle identità nazionali da cui proviene. Non a caso, nel 1972, il MoMA di New York organizza una mostra dedicata al design italiano – Italy: The New Domestic Landscape – nella quale il curatore Emilio Ambasz celebra la tradizione italiana accostando i grandi maestri e la nuova generazione nata dai movimenti d’avanguardia.
L’evento segna un momento storico, perché offre per la prima volta un’occasione di promozione internazionale del prodotto industriale italiano e al contempo una riflessione sui nuovi fermenti intellettuali nel campo progettuale. Fermenti che risentivano del clima politico e sociale che l’Italia stava vivendo. Con lo scopo di rendere “più concreta” la rivoluzione estetica – ma anche culturale – dettata dalla presenza dei nuovi oggetti disegnati, gli allora emergenti Mario Bellini, Alberto Rosselli, Marco Zanuso e Richard Sapper, Joe Colombo, Gae Aulenti, Ettore Sottsass, Gaetano Pesce, Archizoom, Superstudio, Ugo La Pietra, Gruppo Strum e 9999 realizzarono progetti che oggi appartengono a pieno diritto alla storia del design mondiale.
Tutto questo accadeva all’inizio degli Anni Settanta, una fase di singolari e complesse trasformazioni che investirono l’intero tessuto sociale, culturale ed economico del nostro Paese. Anni certamente difficili, che facevano presagire la drammaticità degli eventi che avrebbero segnato il decennio successivo. Eppure, in quella fase pregna di contraddizioni, in cui la produzione industriale correva rapida verso la specializzazione ingegneristica, il design italiano seppe muoversi verso una forma di creatività più artistica e sperimentale: il design radicale degli Anni Settanta, volto a superare la pratica standardizzante del progetto/prodotto industriale. In questo senso, le esperienze esaltanti di due brand protagonisti di allora come Gavina e Bracciodiferro sono state celebrate recentemente da due magnifiche mostre retrospettive. Ma molto resta da fare se davvero si desidera salvare dall’oblio il grande fermento di quegli anni.
Tutto questo ci spinge verso una domanda finale. Cosa e quanto è rimasto oggi nel panorama italiano del design della vivacità creativa di quel periodo? Siamo stati in grado di raccogliere l’eredità di quelle avanguardie che condussero il design italiano sulla frontiera della sperimentazione, della progettazione e – perché no? – della provocazione artistica e culturale? Molti dei protagonisti dell’evento del 1972 ci hanno lasciato e oggi la situazione si presenta a tinte diverse. Da un lato è certamente vero che il Salone del Mobile di Milano rappresenta il maggiore appuntamento mondiale per comprendere le tendenze e i nuovi sviluppi del settore.
I marchi italiani sono ancora protagonisti, ma basta dare una rapida occhiata al catalogo di un’azienda da sempre sulla frontiera della ricerca come Moroso per accorgersi che ormai – con l’eccezione dell’italiana di adozione Patricia Urquiola – i nomi dei nostri designer latitano. Oggi le avanguardie vengono da altri Paesi – si pensi al Belgio o a Israele, ad esempio –, realtà in cui si è saputo investire in formazione e in cui le contaminazioni tra vari ambiti creativi sono state messe sapientemente a “sistema” (espressione da noi ormai stancamente ripetuta come un mantra). Sono passati oltre quarant’anni da quel lontano 1972 e oggi come allora il nostro Paese si trova a vivere una fase di violenti cambiamenti e d’incertezza. La capacità di tradurre queste difficoltà in fermento creativo – lo stesso fermento che seppe generare l’estro di un Marco Zanuso o di un Joe Colombo – sembra però essersi persa per strada.
Luca Fiorito
docente di economia – Luiss Roma e Università degli Studi di Palermo
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #21
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