Street Art, dai muri alla Tate. Una conversazione con Cedar Lewisohn
Cedar Lewisohn fa mille cose. È autore di “Street Art: The Graffiti Revolution” (2009), ha curato la mostra “Street Art” alla Tate Modern (2008) e “UBS long week end” (2010), mentre ha co-curato “Rude Britannia: British Comic Art” (2011) alla Tate Britan. Ora sta a Maastricht per un progetto di ricerca in collezioni private e pubbliche.
Curatore, artista e scrittore: come concili le tue attività?
Sono sempre stato poliedrico. Ho sempre fatto cose diverse. Qualche settimana fa, per esempio, sono stato a Londra un paio di giorni per lavorare a un cortometraggio sull’accesso libero ai dati e la condivisione delle informazioni: ho scritto una breve sceneggiatura in chiave comico-parodico sul tema. All’inizio della stessa settimana ero nel mio studio a Maastricht a lavorare a disegni che reinterpretano alcuni aspetti del modernismo ispirati alla diaspora africana. Con un collega, Carl Hasse, stiamo lavorando alla pubblicazione di un libro in edizione limitata.
E la componente curatoriale? A cosa stai lavorando?
Riguardo ai progetti da curatore, mi sono concesso una pausa quest’anno. So di essere un buon curatore, di saper parlare con gli artisti, di saper guardare criticamente quello che fanno e dirgli: “Forse dobbiamo provare questa strada o quest’altra”. È come essere il produttore di un gruppo musicale che qualche volta fa anche il musicista…. Tutte le mie attività sono creative e mi piacciono: è questo uno dei legami, ma credo che anche la ricerca sia importante. Per esempio, facendo ricerca per il cortometraggio di cui ti parlavo, sono partito dalla prospettiva di una persona a cui interessano l’iconografia e le immagini ridotte al punto da diventare pittogrammi e magari esiste un crossover fra tecnologia e pittogrammi, oppure le immagini che mi verranno in mente da ora in poi mentre disegno presenteranno delle similitudini con i pittogrammi. Le mie attività si alimentano tra loro.
Puoi fare un esempio di alcuni aspetti della tua produzione da scrittore che vengono incorporati e ripresi da artista?
Ho notato che nei miei scritti, la narrazione o addirittura il mentire-sempre, visto in modo creativo piuttosto che negativo, sono un filo conduttore. Raccontare e mentire sono due concetti molto vicini e l’arte è una forma di menzogna.
“Raccontare” quanto è importante per comunicare un messaggio?
Moltissimo. M’interessano le storie. Nel mio lavoro in studio, accenno di continuo a storie che non voglio raccontare per intero. M’interessa di più alludere a una storia. A volte è meglio lasciare spazio all’immaginazione di chi guarda. Le gente, quando guarda un’opera d’arte, spesso si chiede: “Che significa? Di cosa parla?”. E io ci gioco su, perché voglio che le persone si chiedano: “Che cos’è?” e che provino anche a rispondere. È importante che ogni discussione tra me e lo spettatore sia condivisa.
T’interessano anche le storie già raccontate?
Certo. La maggior parte del tempo, specialmente quando disegno, uso storie storie e immagini di altri e le ricreo a modo mio. Rifare, remixare, appropriarsi, sono più o meno la stessa cosa. Lo faccio spesso. Cosa significa? Che non ho idee mie? Penso invece che mi piaccia l’idea di riassorbire le storie di altri; la storia recente, quella passata, parti di storie diverse e ri-presentarle. È successo con la sceneggiatura sull’accesso libero ai dati, che infatti riprende una sitcom, con attori diversi da quelli originali, che però pronunciano le stesse parole; e l’ho fatto in una recente produzione di disegni in bianco e nero, quelli che ti ho fatto vedere, in cui mi riapproprio di immagini che s’ispirano alla cultura africana ritrattata però dallo sguardo europeo. È tutta una re-interpretazione ed è interessante per esempio che alcuni dei lavori che io interpreto siano già interpretazioni. Picasso ha ricreato le maschere africane; le sue sono interpretazioni, eppure io ho visto prima le maschere di Picasso e poi quelle africane…
C’è la ricerca di un’origine nel tuo viaggio attraverso le interpretazioni e re-interpretazioni di un’idea?
Non voglio tornare a un’origine. Sono contento dove sono e forse è impossibile trovare un originale. Trovo interessante però osservare le origini diverse di un’idea ed è bello scoprire da dove arriva un’ispirazione personale. Il fatto è che tutto questo va e viene attraverso di me. Io sono il fattore cruciale nel mio lavoro.
Nel 2008 hai curato la mostra Street Art alla Tate Modern, riuscendo a dare una grande visibilità in Europa ad artisti già conosciuti a livello mondiale e mettendo in evidenza alcuni aspetti della Street Srt: quello tecnico, strategico ma anche culturale. In che misura la cultura street è stata la tua cultura? Hai mai dipinto sui muri?
Lo facevano i miei amici. Io, a sedici anni, ero quello che fotografava i graffiti e andava sullo skateboard. Vivevo in un quartiere di periferia del sud di Londra dove graffiti e Street Art erano uno stile di vita, non solo un modo di dipingere. Significava uscire con certe persone, allontanarsi dal proprio quartiere, esplorare Londra e le periferie. Sì, mi ha condizionato, ha condizionato il mio modo di pensare e di guardare.
Ha condizionato anche il tuo modo di dipingere?
Sì, uso le penne squeezey e anche il mio modo di rendere lo spazio ha qualcosa dei graffiti.
La mostra è stata un successo, che effetto ha avuto a livello professionale e personale?
Fare qualcosa che poi ha successo ed essere associati a quel qualcosa è sempre interessante. Puoi fare un sacco di altre cose, anche diverse, eppure resti famoso per quella singola cosa che ti ha dato popolarità. Naturalmente, è bello essere conosciuti per qualcosa, ma io non sono una persona a cui piace stagnare nelle idee e nei progetti. Proprio l’altro giorno alla radio ascoltavo qualcuno che parlava della cultura schizo, la cultura schizofrenica in cui viviamo, quelle anche definita la “shallow knowledge”. Abbiamo tutti una conoscenza superficiale. Il modo in cui impariamo è click-click-click. Clicchi, scorri, scansioni, leggi velocemente e poi passi ad altro. Non è male spostarsi costantemente anche in relazione alla cultura e alla conoscenza.
Sono stato spesso coinvolto in iniziative culturali che anticipavano. Prima di diventare un curatore, ho lavorato nel mondo della musica. Quindici anni fa frequentavo persone come Mixmaster Morris che faceva musica ambient. Ora è un genere musicale apprezzato, ma all’epoca non l’ascoltava nessuno. Molte cose hanno bisogno di tempo per raggiungere la popolarità e certe persone riescono ad afferrarle mentre sono già sulla strada verso il successo, prendendosi tutto il merito. Come è successo a me con la Street Art. Era già in salita quando ho organizzato la mostra nel 2008, forse ho aiutato un po’ a rendere più popolare la definizione Street Art, niente di più. La cosa divertente di questa storia è che forse la Street Art fa parte di una cultura a cui la gente mi associa facilmente. Se avessi organizzato una mostra su Picabia non sarei stato tanto apprezzato.
Come sei diventato uno scrittore, un artista e un curatore?
Non è stata una scelta. Vengo da una famiglia artistica. Nessuno si è sorpreso quando ho deciso di iscrivermi al Camberwell College of Art. A scuola ero sempre nella classe di disegno o a scrivere storie. In pratica non faccio altro che quello che ho sempre fatto. Andare in accademia mi ha dato uno spazio per farlo per un po’. Ora ho un altro posto in cui farlo. Devo solo trovare il modo di continuare ad avere posti e spazi dove poter fare quello che ho sempre fatto.
Maria Pia Masella
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