Un coltello in mano. Cosa resta di una performance di Chris Burden
All’Orange County Museum of Art di Newport Beach, California, conservano un oggetto particolare. La foto stavolta non è di Marco Senaldi, ma di Francesco Spampinato. Si tratta del coltello che fu impiegato nel 1972 da Chris Burden per realizzare la sua famosa performance “TV Hijack” durante un’intervista televisiva…
Com’è noto, Chris Burden fu invitato dalla critica d’arte Phyllis Lutjeans per un’intervista alla tv californiana Channel 3. Come racconta Burden stesso, “dopo che diverse proposte furono rifiutate, accettai di dare un’intervista. Arrivai agli studi televisivi con la mia troupe video, in modo tale da avere il mio girato. Dopo che iniziarono a registrare, pretesi che lo show venisse mandato in diretta. Dato che la tv non trasmetteva in quel momento, acconsentirono. Nel corso dell’intervista, Phyllis mi chiese di parlare di alcuni dei lavori che avevo in mente di fare. Io le dimostrai un ‘dirottamento’ televisivo. Puntando un coltello alla sua gola, la minacciai di morte se la tv avesse interrotto la diretta”.
Nello scarno linguaggio procedurale di Burden si evidenzia tutto il paradosso di quest’opera- performance unica nel suo genere: alla placida domanda dell’intervistatrice, l’artista risponde senza mezzi termini con l’“opera”, cioè puntandole un coltello alla gola! Per quanto folle, c’è del metodo in quest’azione: gli anni in cui avvenne sono infatti quelli in cui la tv era il mezzo di comunicazione più potente e controverso del pianeta, quelli in cui Pasolini in Italia ne chiedeva l’abolizione, Debord in Francia ne denunciava l’aberrazione e l’attivista Jerry Mander negli Usa ne propugnava l’eliminazione. Burden irrompe nella televisione assumendone in pieno le regole di funzionamento, ma capovolgendole: per un lungo momento, come un terrorista su un aereo di linea, “dirotta” il medium dalla sua rotta prefissata e con ciò, dal suo stesso interno, ne mostra il funzionamento.
Che cosa resta di tutto questo? Poco o niente: il testo di Burden, qualche foto a colori e il coltello. Messo sotto plexiglas accanto alla sua fondina, con tanto di didascalia, fa bella mostra di sé, ma è incerto se presentarsi come una forense “arma del delitto”, un reperto archivistico oppure, direttamente, un’opera d’arte. Che strano: di un gesto così estremo, al punto da diventare leggendario, tutto ciò che ci resta è un piccolo “pezzo di realtà”, così come della indimenticabile diva rimane solo un vecchio abito museificato su una gruccia, un involucro con più niente dentro, il dito, o ciò che ne resta, invece della Luna.
Però il coltello non è solo un inoffensivo feticcio, ma anche un simbolo. Duchamp, in una nota, diceva che comprendere la quarta dimensione dovrebbe essere un’esperienza come “afferrare un coltello a piena mano”.
Forse, per afferrare la quarta dimensione odierna, l’iperspazio mediatico in cui ormai, come intervistati e come intervistatori, siamo ininterrottamente coinvolti, anche un coltello può essere un buon inizio.
testo di Marco Senaldi
foto di Francesco Spampinato
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #21
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati