Viaggi randagi con Luigi Ghirri. Il racconto di Franco Guerzoni
Si apre il 9 ottobre alla Triennale di Milano una mostra di Franco Guerzoni nella quale è inaspettatamente protagonista anche Luigi Ghirri. I “viaggi randagi” dei due sono raccontati da Guerzoni in questa intervista realizzata da Davide Ferri, che ha curato l'esposizione.
A cavallo tra Anni Sessanta e Settanta, Franco Guerzoni (Modena, 1948) e Luigi Ghirri (Scandiano, 1943 – Roncocesi, 1992) hanno vissuto un’intensa amicizia, che diventò da subito anche una collaborazione. I contorni di questa collaborazione sono iscritti in un territorio preciso: c’è la Modena di quegli anni, la città che va espandendosi, le periferia e le nuove villette a schiera, e c’è soprattutto la campagna tra Modena e Mantova, una porzione di bassa padana, il paesaggio dietro casa che i due amici andavano quotidianamente perlustrando a bordo di una Cinquecento.
Guerzoni ha deciso di ripercorrere la storia di questa amicizia attraverso una mostra e un libro (edito da Skira), Nessun Luogo. Da nessuna parte. Viaggi randagi con Luigi Ghirri, all’interno dei quali vengono mostrate per la prima volta le foto che Luigi Ghirri realizzò durante quei brevi “viaggi randagi”. Si tratta per lo più di immagini di case abbandonate, rovine, muri, impalcature, fienili; fotografie che dovevano servire a Guerzoni come punto di partenza per i suoi lavori di quegli anni, quelli che confluirono in serie come Affreschi e Dentro l’immagine. Oppure di scatti che sono documenti di opere che non esistono più, di azioni estemporanee, di esperimenti più o meno concordati.
Incontro Franco a Modena, nel suo studio, come faccio da mesi, perché stiamo lavorando assieme alla mostra in Triennale. Franco sta facendo gli ultimi ritocchi ad alcuni nuovi lavori che presenterà in mostra. Sono dipinti simili a quelli che va realizzando da anni, “affreschi” fatti di sovrapposizioni di colore, cancellature, raschiature, nuove sovrapposizioni, continue correzioni e assestamenti, capaci di contenere, attorno/lungo i bordi o all’interno (in squarci, fessure o su mensole) alcuni scatti di Ghirri che – stampati su gesso, vetro, carta leggera – hanno acquisito una sostanza materica e lo spessore di frammenti e rovine.
Franco è di spalle, su uno sgabello, e mentre parla continua a lavorare. Le risposte alle cose che sto per chiedergli credo di conoscerle già, ma la storia di questa amicizia è piena di aneddoti, di ramificazioni, e ogni volta è bello ripercorrerla.
Come vi siete incontrati tu e Ghirri?
Eravamo vicini di casa, abitavamo entrambi in via Mantegna – lui in una nuova casa – nella periferia di Modena. Fu un’amicizia improvvisa e immediata tra due persone molto diverse. Luigi aveva già una responsabilità familiare e un vero lavoro (era geometra, progettista, impiegato all’immobiliare Zeta), io mi trovavo in una situazione del tutto differente. A guardarmi a posteriori direi che ero intossicato di ideologie, una forma di intossicazione provinciale. Ero focoso e impulsivo, lui invece meditativo e riservato (in seguito, per qualche ragione, questi tratti del nostro carattere si invertirono).
E il suo rapporto con la fotografia era già iniziato in quel periodo?
È un paradosso se ci penso, perché Luigi fotografava già quando lo conobbi, e molto, però era estremamente timido e riservato riguardo alle sue cose. Voglio dire, parlavamo moltissimo, ma sai che quando vedo le sue fotografie quasi non ci credo che le abbia scattate in quegli anni? Poi le riconosco, in fondo erano le cose che avevamo attorno a casa, la sua era già un’indagine in equilibrio tra antropologia e kitsch. Faceva una specie di mappatura delle case, delle finestre, dei portoni, delle pavimentazioni, e in quelle foto si portava dietro tutta la sua formazione da geometra…
Come avvenivano i vostri incontri?
Il prato tra casa sua e casa mia divenne da subito teatro di esperimenti, installazioni che realizzavo con il suo aiuto e che lui fotografava. E poi la sua casa, che era un luogo tenero e accogliente, diventò il luogo di interminabili dialoghi serali, notturni, pieni di sigarette (la moglie Anna ci inseguiva con il posacenere per tutta casa…), ondivaghi, dialoghi con un inizio, una parte centrale fumosa, e una fine per sfinimento. Eravamo due persone che andavano formandosi, naturalmente non si parlava solo di arte, ma anche di molto altro. Il fatto è che lui era voracemente curioso, ma poteva diventare diffidente certe volte, ad esempio quando gli parlavo di Duchamp e Man Ray (un mio pallino allora, un uomo a cui ebbi la fortuna di stringere la mano, fu Dino Gavina a presentarmelo), ma si interessava a un’enormità di cose. Ti dico queste cose perché credo sia è stata costruita, dopo la sua drammatica scomparsa, un’immagine a tratti approssimativa di Luigi che non corrisponde alla realtà.
Ti riferisci a un’immagine un po’ letteraria, quella che per esempio ha raccontato Gianni Celati?
Sì, non solo Celati. Certo, capisco bene che ognuno abbia un suo Ghirri, la sua amicizia privata, le sue immagini. Ma a un certo punto è stata costruita una specie di leggenda, in cui Ghirri appare come una figura un po’ naïf, ottocentesca, malata di romanticismo. Da un certo punto di vista questo romanticismo gli apparteneva, ma attribuirgli questa immagine in modo assoluto è ingeneroso perché Ghirri era anche molto colto, aggiornato, e in quegli anni andò costruendosi una propria cultura dell’immagine, incredibilmente vasta e articolata.
E i vostri viaggi sulla Cinquecento per la campagna modenese, quelli che nel libro chiami “viaggi randagi”?
Avvenivano quasi clandestinamente, io avevo più tempo a disposizione di lui, ma lui invece letteralmente scappava dal lavoro, dall’ufficio. Si stava nel raggio di pochi chilometri da casa, ma il viaggio era randagio perché non si sapeva mai come sarebbe andato a finire. Era un deambulare per strade basse, per segmenti che da Modena ci congiungevano alla provincia di Mantova, e ci fermavamo solo quando qualcosa attirava la nostra attenzione. Allora ci avvicinavamo furtivamente, rubavano le immagini e non tornavamo più in quel posto. Abbiamo fotografato una quantità incredibile di case, di muri, di rovine soprattutto, le immagini sono apparentemente molto simili, ma non fotografavamo mai due volte la stessa cosa.
Il punto è che tutte quelle pietre, quelle macerie, quelle case demolite noi le vedevamo come su un libro di archeologia. Come dire? Erano cose dell’altro ieri, ma noi, reinventandone l’aura drammatica, tragica, riuscivamo a trovarvi la Grecia antica.
Mi hai detto spesso che Ghirri non era contento di quelle immagini, c’era sempre qualcosa che lo lasciava insoddisfatto, e allora insisteva per ritornare, per rifare gli stessi scatti.
Sì, è cosi, ma in un modo o nell’altro riuscivo sempre a dissuaderlo. Non sapevamo di preciso a cosa sarebbero servite quelle cose, poiché non c’era alcun progetto definito, solo sapevamo che alcune foto le avrei usate per il mio lavoro, e quello che avevamo andava benissimo per me, io preferivo le foto che per lui erano sbagliate, irrisolte, tanto le avrei ritoccate, le avrei usate come supporto per altri interventi…
E Ghirri come reagiva a quel tuo lavoro?
So bene che non era d’accordo sull’aggiungere, per lui l’immagine fotografica doveva essere secca, definita. E poi c’era la questione del colore, lui ne era già sedotto, e io invece volevo stampare in bianco e nero. Su questa cosa capitava spesso di discutere a lungo, ma poi mi lasciava fare.
In ogni caso mi sono chiesto spesso se la ragione per cui si faceva trascinare in questa specie di collaborazione fosse davvero la stima o una forma di amicizia incondizionata. Credo che gli piacesse partecipare, essere lì, e potrei dire la stessa cosa riguardo al suo modo di stare dentro al “paesaggio modenese” di quegli anni.
A cosa ti riferisci di preciso?
In città c’era un gruppo abbastanza coeso, le cui figure di riferimento erano sicuramente Franco Vaccari e Claudio Parmiggiani, che avevano già un’identità formata, poi c’eravamo noi e artisti come Carlo Cremaschi e Giuliano Della Casa. Ci si incontrava spesso, si discuteva, Luigi dai primi Anni Settanta, collaborava, come tutti sanno, anche con Parmiggiani.
È una cosa che mi ha sempre affascinato di artisti come te e Ghirri, il vostro radicamento in un territorio, nella provincia.
Il territorio di Modena, in quegli anni, era attraversato da artisti, poeti, grandissimi architetti che hanno lavorato in città. Poi c’era questa ragnatela, già tessuta per merito di artisti come Vaccari, su cui io e Luigi avemmo la possibilità di appoggiarci. Naturalmente non si stava sempre fermi, per me ci furono figure importantissime come Vincenzo Agnetti a Milano e Alberto Grifi, a Roma, che andavo spesso a trovare. Ma nessuno di noi sentiva l’esigenza di altri approdi. Facevamo comunità, ci aiutavamo, tutto si reggeva su equilibri delicati, certamente, ed era come sostenuto da due sentimenti che mi sembra gli artisti di oggi abbiano smarrito: una forma di forte imbarazzo e un rispetto assoluto per il primato dell’invenzione, che stabiliva confini e distanze tra noi.
Comunque, questa esperienza modenese è stata una specie di scuola di pensiero per tutti, i problemi dell’arte contemporanea arrivavano come frecce, Luigi sapeva sedarne la forza all’occorrenza, sentiva che certe cose erano sfuggenti, concettose, ma in ogni caso lo divertivano molto.
L’impressione è anche che da un certo momento in poi si sia distanziato da quell’esperienza..
Sì, anche se ne ha sempre riconosciuto l’importanza. Pensa al fatto che negli anni settanta la figura del fotografo era come decaduta, collassata, e io credo che quell’esperienza sia stata una specie di ancora di salvezza per lui. Molti lavori di Luigi, lavori come Atlante e Infinito, sono nati anche grazie a questa sua formazione. Però negli Anni Ottanta avvenne sicuramente un cambiamento, come se in quel periodo si fosse liberato di tutta una infrastruttura concettuale, come se la sua fotografia fosse diventata più libera e, in un certo senso, melodrammatica.
Questa melodrammaticità in fondo era un altro tratto del suo carattere.
Proprio negli Anni Ottanta il vostro rapporto si è allentato, come rarefatto…
Sì, c’erano stati molti cambiamenti: il mio “sfinimento per la fotografia”, il mio graduale passaggio alla pittura. In quegli anni lo perdo un po’ di vista: anche nella sua vita privata certe cose erano irrimediabilmente mutate.
È stata un’amicizia molto intensa perché è durata pochi anni, una decina, non di più.
Perché hai deciso di scrivere, a distanza di quasi quarant’anni, questo lungo racconto autobiografico? Voglio dire: perché questa storia di te e Luigi Ghirri la racconti proprio adesso?
In un certo senso ripensare a quel periodo, da una distanza di sicurezza, è stato come ricongiungermi con me stesso, ritrovare la linea lungo la quale ho camminato.
Quegli anni con Luigi sono stati per me una specie di nocciolo germinale. Le sue, le nostre foto, le avevo riposte dentro alcune scatole, ed è stato come averle “dimenticate a memoria”. Ci è voluto tutto questo tempo per riuscire a guardarle senza imbarazzi, per dipanare il groviglio delle influenze, delle false partenze, delle sconfitte e degli errori. Ora non vedo più quelle foto criticamente, la loro potenziale bellezza, ma il laboratorio mentale, l’esperienza che le ha generate.
Il mio amico Ermanno Cavazzoni dice che spesso sono più curiose le vite delle opere, l’opera è cieca, muta e sorda e si da per frammenti. È il movimento dell’autore che diventa interessante, soprattutto quando inciampa.
Davide Ferri
Milano // fino al 9 novembre 2014
Franco Guerzoni – Nessun luogo. Da nessuna parte. Viaggi randagi con Luigi Ghirri
a cura di Davide Ferri
Catalogo Skira
TRIENNALE DI MILANO
organizzata da Triennale, Skira e Nicoletta Rusconi Art Projects
Viale Alemagna 6
02 724341
www.triennale.org
MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/36901/nessun-luogo-da-nessuna-parte/
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