Alfredo Pirri. Ecco perché lascio la Galleria Giacomo Guidi
Abbiamo ricevuto da Alfredo Pirri questa lettera aperta, che fa seguito alla sua decisione di lasciare la Galleria Giacomo Guidi. Volentieri la pubblichiamo, lasciando allo stesso Guidi pieno e auspicabile diritto di replica. Perché la questione, pur nella sua specificità, è uno spunto esemplare per aprire un dibattito sul ruolo del gallerista in questo inizio di XXI secolo.
Amici cari e persone verso cui porto considerazione.
Questa lettera per comunicarvi che, con dispiacere e solo dopo lunghissima attesa, sono costretto a cessare definitivamente la mia collaborazione con la Galleria Giacomo Guidi di Roma.
Rubo un po’ della vostra attenzione con un’informazione che per l’opinione corrente dovrebbero riguardare solo la mia attività e vita privata, sapendo bene quanto la decisione (mia o d’altri) di lavorare con questa o quella galleria sia di scarso interesse collettivo.
Se ve ne scrivo, è solo perché non mi arrendo al pensiero che le scelte personali, che maturano nel nostro ambiente, debbano per forza essere considerate ininfluenti per la comunità e che debbano necessariamente nascere e morire nel segreto di una decisione tristemente solitaria. Al contrario ho sempre pensato all’artista come una persona pubblica le cui valutazioni e riflessioni dovrebbero servire a forgiare, o almeno indicare, comportamenti e considerazioni ampiamente utili.
Abbandonare una galleria o continuare a farne parte (o addirittura, com’è stato per me nel recente passato, cercare di farne punto di riferimento anche per altri artisti) non è cosa indifferente. Anzi è qualcosa che comporta una responsabilità personale destinata, mi auguro, a favorire una riflessione su varie cose, come ad esempio: cosa debba essere oggi una galleria d’arte e come starci dentro, su quali patti etici essa debba fondarsi e quale il ruolo dell’artista dentro questi patti, infine il modo di amministrare il rapporto con gli artisti in rispetto alle cose predette e alle regole comuni dello stare civile.
Nel caso della Galleria Guidi, come ormai è palese, circolano nel nostro ambiente giudizi e opinioni negative che hanno a che vedere proprio con quest’ultimo punto: il rapporto fiduciario fra artista e gallerista. A questi giudizi, che condivido per averne vissuto direttamente tutti gli aspetti negativi, vorrei aggiungere un piccolo ragionamento che ruota intorno a una mia convinzione che ritengo prioritaria rispetto al resto, ossia che le questioni gestionali siano da subordinare a quelle culturali (e non come normalmente avviene viceversa), quindi che quanto ci sia di eventualmente sbagliato nel comportamento da parte della galleria Guidi nei confronti degli artisti sia da affrontare pubblicamente proprio perché corrisponde con qualcosa di errato su un piano specificamente culturale e non solo amministrativo.
Insisto sul concetto per cercare di dire con chiarezza che, il motivo principale del mio allontanamento dalla galleria riguarda l’etica dello stare al mondo, cioè la domanda se lo stare al mondo dell’arte e delle sue forme organizzative possa o forse, secondo Giacomo Guidi, addirittura debba affermarsi in totale mancanza di un presupposto etico.
Lontano da me ogni forma di eticità autosufficiente e sterile. So bene quanto la vita sia più complessa e ricca rispetto a logore questioni morali che la vogliano intrappolare dentro regole preconfezionate e finalizzate a bloccare ogni cambiamento, ma so altrettanto bene quanto la corretta impostazione nel rapporto artista–galleria e il rispetto delle reciproche competenze e spettanze siano importanti. Esse ne misurano, appunto, l’eticità della reciproca collaborazione, il corretto svolgimento di un programma di lavoro comune e infine proprio quell’impegno reciproco al cambiamento e alla tensione culturale permanente che dovrebbe caratterizzare il rapporto gallerista e artista.
Ad esempio, vorrei invitare a riflettere sul come e il perché questa galleria decida di impostare tutta la sua attività su due centralità tanto dominanti quanto sbagliate: da un lato una socialità talmente pressante da divenire informe e amorfa, dall’altro una centralità tanto esasperata dell’immagine del gallerista stesso che addirittura sfocia in una specie di culto autocelebrativo. Mettendo a contatto queste due polarità, si crea una specie di cortocircuito che letteralmente brucia l’artista e l’arte mandando in fumo l’uno e l’altra cosa.
Riconosco che, nella mente di Giacomo Guidi tutto nasca dal desiderio di rompere con una visione statica della galleria e del commercio dell’arte che tutti conosciamo e ormai (forse) immaginiamo prossimo alla fine,ma la conseguenza di questo problema (nella mente di tanti diventato un incubo) non può essere la trasformazione della galleria in un negozio di tendenze differenti fra loro sovrapposte.
Una galleria, per come la immagino io, dovrebbe essere un luogo dove il negoziare, non si consuma nell’atto del rivendere o del mostrare merci. Dovrebbe essere, invece, quel luogo dove l’opera d’arte, con la sua centralità, riesce a imporre un processo dinamico di patteggiamento fra idee e identità personali differenti (quella dell’artista del gallerista e dell’acquirente insieme con altre che ruotano attorno) e dove la moneta diventa il suggello finale di questo processo, la forma astratta che aggiunge valore a un patto che tutti dovrebbero impegnarsi a rispettare, per primo il gallerista. Per questo, la galleria esiste (ancora) come identità civile, perché afferma il suo essere luogo di mercato e scambio suggellato secondo coscienza in rispetto delle relative competenze. Un po’ alla maniera di un mercato mediterraneo, costruito cioè intorno ad un luogo (reale o irreale poco importa) come una cattedrale o una moschea, dove tutto accade per riferimento e omaggio a quanto contenuto in sé, qualcosa da amare e rispettare e dove tutti i riti di mercanteggiamento divengono simili a quelli d’innamoramento valgono, cioè a qualcosa perché intesi a rafforzare la considerazione personale di quell’amare e rispettare.
Con parole semplici, vorrei quindi terminare dicendo che non mi sento a mio agio come seguace di quel culto centrato sul solo elogio della bellezza dello spazio espositivo e sull’atteggiamento entropico di un gallerista che vi si richiude dentro non per rafforzare le idee degli artisti che rappresenta ma come fosse un latitante che sfugge al confronto con la società e con quella comunità dell’arte che pubblicamente lo incolpa di espropriare l’artista del suo lavoro. Al contrario, ho bisogno di sentirmi fiero di collaborare a un progetto espositivo o culturale e, mi dispiace molto dirlo, non vedo possibilità che questo possa succedere ora dentro la Galleria Guidi.
Io sto e starò da un’altra parte, dove spero di incontrare altri che la pensano come me.
Alfredo Pirri
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