Ancora sulla nomina di Vincenzo Trione. Postilla al Padiglione identitario
Non c’è davvero da aggiungere nulla alla bellissima serie di pezzi comparsi all’indomani della nomina di Vincenzo Trione a curatore del Padiglione Italia per la prossima Biennale di Venezia. Una serie che ha dimostrato un’ampia varietà di punti di vista, e di livelli interpretativi che hanno allargato lo sguardo dalla questione specifica al quadro generale. Però ancora una postilla ci può stare…
Considerando lo scenario, mi vengono in mente due o tre osservazioni. Lo scenario, dico, dell’arte e della cultura italiana degli ultimi anni, della sua percezione e della sua proiezione verso l’esterno.
L’Italia – una volta e ancora conosciuta come “il Belpaese” – si è trasformata nell’ultimo trentennio in uno dei luoghi in assoluto più ostili al nuovo. Il problema principale del nostro Paese, infatti, è la peculiare avversione al rischio che sembra aver sviluppato negli ultimi decenni: ogni innovazione vera è percepita come una minaccia, e viene regolarmente esclusa dallo sguardo collettivo. La società italiana soffre dell’incapacità cronica, a tutti i livelli, di immaginare il futuro; e persino – cosa forse ancor più grave – di percepire il presente. L’aggravarsi della crisi non fa che evidenziare brutalmente, ogni giorno, questa incapacità che sembra divenuta strutturale. Consideriamo poi che l’innovazione, intesa come modifica sostanziale dell’ordine conosciuto, “un’alterazione di ciò che è stabilito” (Erwin Panofsky, Rinascimento e rinascenze nell’arte occidentale, 1960), ha bisogno di un’ecologia: di un intero ecosistema culturale in cui nascere, mettere radici e crescere organicamente. A questa necessità, noi opponiamo da lungo tempo uno spazio psichico dalle caratteristiche inconfondibilmente concentrazionarie.
Ovviamente, questa avversione ha radici storiche profonde, a cui si può solo qui accennare velocemente ma che sono al centro di tutto quello che facciamo e pensiamo di noi stessi a livello artistico, culturale, politico: come mai infatti possiamo datare l’inizio di questo processo – e di molti altri, in realtà, tutti correlati – a “trent’anni fa”? Evidentemente, la fase del cosiddetto “riflusso” a cavallo tra Anni Settanta e Anni Ottanta rappresenta la rimozione “in presa diretta” del trauma collettivo del terrorismo: il seppellimento preventivo di un passato recentissimo che sconfina nel presente. Si tratta infatti del momento in cui un’intera nazione decide che ne ha abbastanza e sceglie, più o meno consapevolmente, di lasciarsi alle spalle un periodo violento e tragicamente incomprensibile. Sceglie di dimenticare. La conseguenza più madornale di questo meccanismo collettivo, una conseguenza che estende la sua ombra sui decenni successivi fino a oggi, è l’identificazione pressoché automatica e subliminale tra innovazione culturale, innovazione sociale e violenza politica. È come se – da allora – ogni volta scattasse una ripulsa, un allontanamento: una fuga. Questa identificazione ha generato la fuga nell’evasione, nella nostalgia, nell’autocelebrazione, nell’autocommiserazione, nell’autoassoluzione, nella retorica, nella conferma-del-già-noto: tutti elementi, non a caso, fondamentali nella produzione e nella fruizione della cultura italiana (non solo, certo: ma assumo che l’Italia sia in questo e in altri sensi paradigma dell’Occidente, non per la prima volta: “avanguardia e non retroguardia”, come direbbe Giuseppe Genna) dagli Anni Ottanta a oggi.
Tutto questo fa il paio naturalmente con la rimozione del conflitto, che è la vera cifra del recente passato e del presente italiano. Il cambiamento vero (e non presunto), anche e forse soprattutto quello artistico e culturale, richiede – esige – la ribellione. Il cambiamento vuole modificare le condizioni e le precondizioni, discutere le premesse dell’esistente, riverberarsi in ogni dominio. Come si produce il cambiamento in una realtà che sembra aver completamente eroso e cancellato l’elemento immaginativo, critico, conflittuale?
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Come nel secondo dopoguerra, dunque, ci accingiamo a ricostruire la nostra infrastruttura immateriale prima ancora di quella materiale. Questa ricostruzione è un compito degno che possiamo assegnare alla nostra vita. Il che non vuol dire che essa sia necessariamente destinata al successo: una delle questioni infatti attuali è che ci siamo disabituati al fallimento, alla prospettiva del fallimento, all’amarezza e alla saggezza del fallimento. Come se tutto ciò che facciamo dovesse per forza “andare bene”, “sfondare”; come se ci fosse un contratto, o un Programma da rispettare, che non ammette deviazioni, interruzioni e sperimentazioni di sorta; e per paura di non riuscire – ma riuscire a cosa? – ci affidiamo programmaticamente all’irrilevanza, a ciò che già conosciamo, alla rassicurazione e alla consolazione di ciò che già sappiamo. Invece, è possibilissimo sperimentare e fallire: non solo, è necessario. E almeno sarà stato divertente e interessante provare a realizzare qualcosa del genere, insieme.
In un momento del genere, fondamentale è comprendere come tematizzare il disagio che ci attanaglia e che ci attraversa tutti (non c’è nulla di più diffuso infatti, nell’Italia di questi anni, della paura di essere già dei fantasmi…), che articola e innerva il nostro tempo: fondamentale proprio per riconnettere l’arte alla realtà.
Un disagio che è stato finora senza nome, e che occorre nominare e articolare perché esso diventi la colonna portante della nostra nuova-antica identità: non la forza che ci paralizza e ci spinge giù, ma il motore che ci muove e che attiva i processi creativi fondamentali. Occorre abbandonare la retorica, il “fare-come-se” vivessimo in una dimensione parallela, e calare – senza più autocommiserazione né autoassoluzione – la pratica artistica e creativa nel tessuto della nostra esistenza collettiva e quotidiana. Non c’è nulla, al tempo stesso, di più facile e di più difficile: il recinto di convenzioni linguistiche e comportamentali che ha orientato le scelte degli artisti, dei curatori, degli operatori in questi decenni si sta rivelando particolarmente pernicioso, proprio perché si fonda sulla dissociazione rispetto a quello che avviene nella realtà sociale. Occorre riportare il proprio spazio esistenziale – con tutti i suoi traumi, le sue incongruenze, le sue umiliazioni – dentro le opere, e far sì che esse siano finalmente vive.
Christian Caliandro
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