Beckett, Film
A girarlo nel 1964 fu Alan Schneider, ma “Film” resta inevitabilmente legato al nome di Samuel Beckett, che lo scrisse. E fu l’unico esperimento diretto dell’irlandese col cinema. Il ruolo del protagonista fu affidato a Buster Keaton. E l’interpretazione fondamentale la diede Alain Badiou. Qui ve lo raccontiamo, se così si può dire…
Occhio (Eye) si apre, e ci guarda. Come l’occhio di un mostro marino.
L’alto muro di un quartiere urbano rovinato.
Io (I) corre lungo il muro, il viso coperto: solo l’anziana coppia guarda il viso (guarda lo sguardo). E si dispera.
Come la vecchia sulle scale. Il viso è sempre coperto da una specie di fazzoletto lurido.
Occhio guarda Io sempre da dietro, lo insegue, gli è sempre alle spalle: tranne quando Occhio diventa Io, si identifica con Io, con il suo sguardo. Uno sguardo costantemente fuori fuoco, come se nel passaggio da Occhio a Io perdessimo qualcosa, qualche grado visivo e percettivo.
Io non sopporta la propria vista, e quindi non fa altro che coprire gli specchi nell’appartamento sporco e misero, spoglio, essenziale in cui vive; porta fuori tutti gli altri occhi, le altre visioni e le altre percezioni, che appartengono alle bestioline e agli animali domestici in giro. Occhi animali.
“All extraneous perception suppressed, animal, human, divine, self-perception maintains in being. Search of non-being in flight from extraneous perception breaking down in inescapability of self-perception” (Samuel Beckett, Esse est percipi, 1964).
Intanto il drappo nero è caduto dallo specchio appeso al muro, e le mani nodose lo risistemano. Le mani nodose di Io.
La fotografia del volto semidivino barbuto con gli occhi enormi appesa con un gran chiodo alla parete, strappata via dalle mani nodose di Io.
L’ombra chiara della foto sul muro. Altri occhi animali: il pappagallo.
E sempre Occhio segue Io da dietro; il nostro sguardo è quello di Occhio e quello di Io, a fuoco e sfocato, che si alternano e si giustappongono. (L’occhio del pesce rosso, coperto dal velo nero.) Il nostro sguardo è anche – e soprattutto – l’unica visione che non può essere eliminata da Io, su cui non può calare nessun drappo nero perché siamo al di qua dello schermo, al di qua di quel tempo e di quello spazio: oppure, il drappo, il velo è già calato sul nostro sguardo (il terzo dopo quello di Occhio e quello di Io, lo sguardo che comprende e assembla e sintetizza i primi due), un velo ancora più spesso e scuro, che ci illude di capire ciò che stiamo guardando ma che al tempo stesso continuamente ci distanzia dagli eventi e dalle azioni e dalle percezioni incrociate. (La “perdita di qualcosa”, di gradi visivi e percettivi: la distanza sempre si rinnova, fugge spaventata dalla luce.)
Lo schienale della sedia a dondolo dalla forma strana, che diventa una maschera totemica. Il lungo grande chiodo conficcato nel muro.
Le fotografie, le rappresentazioni oleografiche della socialità, degli affetti, dei riconoscimenti professionali, dei valori familiari e tradizionali – stracciate, fatte a pezzi dalle mani nodose di Io.
I pezzi buttati sul pavimento, con rabbia e soddisfazione. Con odio.
Io sta per assopirsi sulla sedia a dondolo, la sua percezione non è più così vigile: Occhio sta per coglierlo in fallo, e dopo una lunga lunga lunga panoramica della stanza… lo inquadra.
Io è Buster Keaton. Vecchio e con l’occhio bendato.
Occhio è Buster Keaton. Vecchio e con l’occhio bendato.
Io è Occhio. Occhio è Io.
Io è sgomento. Le mani nodose di Io coprono il viso (come il fazzoletto lurido all’inizio, ma con più consapevolezza e disperazione). Brevemente.
Io guarda di nuovo Occhio, se stesso, sfocato. La visione di Occhio è invece – come sempre – limpida.
Le mani nodose di Io tornano a coprire il viso di Io.
Occhio (Eye) si apre, e ci guarda, come l’occhio di un mostro marino.
“Film è un film, un film il cui unico personaggio è recitato da Buster Keaton. Riguarda un uomo – un oggetto O, come lo definisce Beckett – che scappa perché inseguito da un occhio, nominato E. Il film è la storia di questo inseguimento e di questa fuga, e solo alla fine possiamo riconoscere l’identità dell’inseguitore e dell’inseguito, dell’occhio e dell’uomo. (…) [‘Esse est percipi’] è l’argomento del cogito, eccetto per la sfumatura ironica che deriva dal fatto che la ricerca della verità è sostituita dalla ricerca del non-essere, e inoltre da un’inversione dei valori: ‘l’inevitabilità dell’auto-percezione’ – che per Cartesio è una delle più importanti vittorie – appare qui come un fallimento. Il fallimento di cosa, esattamente? Dell’estensione al Tutto – incluso il soggetto – della forma generale dell’essere, che è il vuoto. Il cogito mina questa estensione. C’è un esistente il cui essere non può non-esistere: il soggetto del cogito” (Alain Badiou, Beckett, 1995).
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #21
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