Caga e muori. Parla Maurizio Cattelan
Cos'ha di più questa intervista a Maurizio Cattelan rispetto a quelle che avete letto, anche su Artribune, nelle scorse ore? Che questa arriva a poche ore dall'inaugurazione di “Shit and Die” e nasce dopo aver passato un po' di tempo tra le sale di Palazzo Cavour, durante l'allestimento. Quindi cerca nel limite del possibile, per quanto concede una sfinge come Maurizio, di entrare nel merito delle opere, del lavoro. Di un'impresa che, nel bene e nel male, farà discutere...
“Shit and Die” si apre con l’installazione di Eric Doeringer: 40mila biglietti da un dollaro. Per introdurre il tema del denaro e della ricchezza avete scelto un’opera con questa valuta: non avete cercato (o fatto produrre ad hoc) lavori con euro, yuan, bitcoin. Perché il dollaro rappresenta, per noi occidentali, una specie di moneta per antonomasia? O c’è in questa scelta un retaggio della fascinazione di Maurizio per l’America, quindi un dato autobiografico che, posto all’inizio della mostra, funziona come prima subliminale dichiarazione di presenza da parte dell’assente Cattelan? Oppure, ancora, c’è una forma di ironia – siamo a Torino! – nei confronti delle recenti scelte della FIAT?
In realtà fin dall’inizio non eravamo tanto interessati a esplorare un tema in particolare, non ci siamo seduti a tavolino a elencare i temi della mostra. Prima sono arrivate le opere, come intuizioni più che come concetti. È andata così anche coi dollari: volevamo fin dall’inizio del percorso un accenno all’ossessione per l’accumulo e il collezionismo che ha caratterizzato la nostra esperienza torinese. Conoscevamo il lavoro di Hans-Peter Feldmann prodotto per l’Hugo Boss Prize al Guggenheim, ma solo qui abbiamo scoperto erano stati portati in giudizio da un artista torinese, Gianni Colosimo, che sostiene di aver avuto per primo l’idea. Così abbiamo deciso di commissionare a Eric una nuova copia del lavoro, che stesse a metà tra le due. L’ha intitolata The Hug, perchè è un quarto del titolo dell’opera di Feldmann, così come lo sono il numero di dollari alle pareti, ma anche perché potrebbe essere il motivo di ricongiungimento tra i due artisti, forse per farci causa a loro volta!
Sarah Cosulich Canarutto ci ha detto che tra le esperienze che hanno indotto Maurizio ad accettare di lavorare a Shit & Die c’è anche un tour in taxi per le vie della città: ha fatto particolare riferimento alla visita al quartiere di San Salvario, il più genuinamente multietnico della città. In mostra troviamo accenni alla Torino città di immigrazione nell’installazione di Tayou, che ci porta in una specie di suk; o comunque si riferisce a livello istintivo a fenomeni di immigrazione più recente: non c’è una traccia forte del passato di Torino come città meta di immigrazione interna, con tutte le tensioni Anni Sessanta a livello di integrazione di siciliani, calabresi, veneti… Perché? Sarebbe stato troppo didascalico oppure è una pagina che pensate non avrebbe restituito al meglio la fotografia della città oggi?
Come dicevo, non c’è niente di predeterminato: abbiamo preso ispirazione in modo soggettivo e non esaustivo da quello che ci è successo in città quando abbiamo fatto i sopralluoghi. I giri in taxi sono stati molto istruttivi, a un certo punto attraversando Porta Palazzo il tassista ci ha indicato con molta precisione una frontiera mentale che attraversava la piazza: a destra la zona sicura, a sinistra la zona “a rischio”: abbiamo intuito che fosse un punto vulnerabile della città, che poteva essere interessante da approfondire, possibilmente non in modo didascalico.
Per rappresentare il passato industriale di Torino ci portate – anche – a Talponia. Quale lettura suggerite di quell’esperienza particolare: c’è rifiuto per una forma di annichilimento della fantasia e delle libertà personali oppure, sottotraccia, possiamo leggere quasi ammirazione nei confronti dell’utopia di una società ordinata, quasi sovraumana e quindi migliore rispetto a qualsiasi altra possibile?
È quel genere di ammirazione che a che fare con quello che non riesci a comprendere fino in fondo. Quegli appartamenti sono una sorta di Ikea ante litteram, una democratizzazione del design che ha anticipato di molto i tempi. In generale trovo affascinante quando l’utopia diventa estetica.
Nella sezione erotica della mostra, con i lavori di Carlo Mollino, Carol Rama e Dasha Shishkin suggerite un gioco incrociato di sguardi: la visione dell’uomo sulla donna e la visione della donna stessa sulla donna. Il cerchio sembra non chiudersi però con l’immaginario della donna sull’uomo – e perché no dell’uomo sull’uomo – : perché avete ritenuto che non aggiungesse niente a ciò che volevate comunicare? O che altro?
Il punto di partenza sono state le polaroid di Carlo Mollino, nella prima stanza della sezione: sembra di intuire dalle foto che le donne per lui fossero una sorta di feticcio, un insieme di linee e ombre, così come può esserlo un oggetto di design. Volevamo creare un dialogo e esplorare un punto di vista parallelo ma diametralmente opposto, quello delle donne sull’uomo e su se stesse. Ci sono diverse generazioni in mostra, da Dorothy Iannone a Andra Ursuta: più ti allontani nel tempo più l’affermazione del corpo femminile diventa esplicita, un vero e proprio statement.
Sappiamo che Maurizio non ha un particolare affetto per la stagione dell’Arte Povera, parentesi che quindi non c’è in Shit and Die. La Torino dell’arte è dunque rappresentata da due eretici come Mollino e Mondino, ma non da un’altra figura borderline come quella di Alighiero Boetti, che pure avrebbe forse “potuto starci”. È interessante però vedere in che modo è presente Mondino: con i lavori che alludono alla sua stagione “orientale” (e viene in mente il Boetti afghano), opere dall’anima eminentemente tessile… c’è dunque, nel mood, anche un po’ di Boetti? Come se Mondino, nella sua originalità, contribuisse a esorcizzare la presenza-assenza dell’altro?
Boetti c’è! C’è un suo straordinario ritratto realizzato da Yan Pei-Ming. Non è per negare la validità dell’Arte Povera che ci siamo concentrati su Mondino, è stata invece una scelta in positivo. Sono semplicemente lavori molto diversi. Volevamo approfondire la sua figura di artista fuori dalle righe, il disinteresse per quello che lo circondava, la sua convinzione nel seguire il proprio percorso eccentrico, anche in senso letterale. Forse per questo oggi i suoi tappeti stesi possono essere scambiati per un’installazione di un giovane artista.
Sfera privata (la sezione sull’eros) e dimensione pubblica (la galleria di vip); universo dell’uomo (la casa) e ambiente naturale (l’installazione di Balula); nobiltà (appartamento Cavour) e proletariato (l’ultima sala): questa mostra è un grande, teatrale, gioco delle coppie?
È un’interpretazione interessante, ma non l’abbiamo costruita in questo modo: non saprei dirti se ci sono delle coppie antitetiche, ma di sicuro è una mostra che ha a che fare con la teatralità. Tutto quello che c’è dentro, le persone,gli ambienti, gli eventi e gli oggetti presentano un senso di teatralità molto forte: le loro caratteristiche e debolezze sono enfatizzate a tal punto che possono toccare ognuno di noi, come in una messa in scena catartica, da teatro greco.
L’allestimento di Shit and Die sembra portarci, più che all’interno di una mostra, tra le pagine di un romanzo. Racconta una storia: con personaggi e situazioni che ritornano ed altri che evolvono, con una struttura circolare alla Finnegans Wake che finisce là dove inizia e viceversa; con un equilibrio molto controllato tra momenti di massima tensione ed altri in cui il pathos si allenta. Quanto c’è del Maurizio editore in questo lavoro? Possiamo pensare che il Maurizio esclusivamente artista avrebbe immaginato una mostra diversa? O forse nemmeno avrebbe accettato di curarne una?
Di sicuro c’è dietro un lungo lavoro di “editing”: in mezzo a tutto il materiale visivo disponibile abbiamo scelto e messo in un certo ordine, e questo è dal mio punto di vista parte del lavoro del curatore. Ovviamente non si tratta solo di questo, perchè a differenza dell’editing di un testo l’opera vera e propria rimane centrale e non modificabile, e probabilmente per questo siamo partiti scegliendo i lavori, prima che gli artisti. I lavori sono semplicemente nel posto giusto al momento giusto, per lo meno dal nostro punto di vista. Non penso ci sia differenza tra essere nel ruolo di artista o nel ruolo di curatore. La differenza è che qui ho lavorato in team con Marta e Myriam, che hanno aggiunto altre opinioni e osservazioni e spunti ai miei, e d’altra parte non avrei saputo fare senza questi spunti: il lavoro di gruppo in questo caso era indispensabile.
Il tema della fuga, della distanza incolmabile (Roman Signer) e quello dell’inafferabilità, dell’effimero (Petrit Halilaj); la scelta di dichiarare la morte nella sua dimensione pubblica e sociale con la Forca di Torino (che non può non portarci ai manichini di piazza XXIV Maggio), e poi il discorso della fama e del denaro: tutto, sempre e comunque, ci porta a Maurizio e al suo percorso come artista. Shit and Die è una grande allegoria del suo percorso creativo? È una retrospettiva mascherata nella quale Maurizio è libero di mettersi a nudo – paradossalmente – senza esporsi?
Credo che sarebbe difficile essere più nudo che al Guggenheim, dove tutti i miei lavori erano presentati come in un gigantesca impiccagione di massa. Quello è stato un passaggio fondamentale per tracciare una linea netta tra il mio lavoro di prima e quello che faccio ora. Lavorare in squadra è un antidoto verso se stessi: in parte mi sono liberato dall’essere me.
Il tema della morte attraversa fin dal titolo l’intera mostra. Questo concept forte, insieme al fatto che Maurizio è incontrovertibilmente un artista crea un’associazione di idee con Freedom not Genius, mostra curata un paio di anni fa da Damien Hirst – con i pezzi della collezione Murderme – per la Pinacoteca Agnelli. Quell’esperienza è stata tra i referenti concettuali per Shit and Die?
In realtà, il tema della mostra non è la morte, sarebbe stato troppo prevedibile! Penso che sia più sul tentativo continuo e disperato di tutti noi di estendere la nostra presenza in un futuro che non vivremo. Non è solo un fatto personale, è qualcosa che abbiamo trovato molto presente a Torino quando l’abbiamo visitata. Le persone qui hanno una fascinazione per le collezioni strane, per l’accumulo, una strana perversione per gli oggetti: probabilmente perchè più nei hai, più ti sembra di essere ancora presente una volta lasciato questo mondo.
Per impegno concettuale e anche – immaginiamo! – finanziario Shit & Die può essere paragonato a un progetto “da Biennale”. Contesto con il quale Maurizio si è già misurato, in veste di co-curatore, a Berlino. Accettereste, come gruppo di lavoro, di lavorare su un Padiglione Italia a Venezia? Cosa significherebbe affidare un incarico del genere a un artista e non a una figura di curatore tradizionale?
Non si può mai sapere, sarebbe una grande occasione testarci su un progetto più ampio, e con più tempo per ideare la mostra. Allo stesso tempo, forse sarebbe una sfida troppo estesa per un team così ristretto, dovremmo allargarci un po’. Cosa significherebbe lo lascerei decidere a chi ci scegliesse, ma non vedo la fila al momento!
Ci dicono che, sulle prime, non volevi accettare di partecipare a questa avventura: è vero? Cosa ti spaventava o di cosa non eri convinto? Cosa invece è scattato e ti ha fatto cambiare idea?
Non ho avuto alcun dubbio a questo proposito, l’idea di curare qualcosa mi era rimasta la voglia dopo l’esperienza della Biennale di Berlino. Torino, naturalmente, è stata un grande musa: fin dal primo momento ce ne siamo innamorati, come una donna misteriosa, una di quelle che mantiene un segreto che non riuscirai mai a scoprire.
Hai scelto di lavorare con due curatrici giovani, dividendo in parti uguali oneri e onori dell’impresa. La tua scelta implica una critica nei confronti dello starsystem dell’arte, del gigantismo che lega il grande artista alla grande mostra e al grande critico?
È impossibile per me criticare quel sistema, visto che pare che io stesso ne faccia parte. Con Myriam e Marta stavamo pensando da un po’ di tempo di fare altri progetti insieme, quindi è stato abbastanza naturale chiedere a loro di condividere questa avventura. Allo stesso tempo, speriamo che il fatto che nessuno di noi sia un vero e proprio curatore possa contribuire a ottenere una mostra difficile da classificare.
C’è una cosa che mi ha incuriosito della tua “Autobiografia non autorizzata”: in due passaggi si tocca il tema della preghiera, in riferimento ovviamente a HIM e poi nel momento in cui elabori la retrospettiva al Guggenheim. In entrambi i casi dici (o Bonami dice, quindi forse dovrei chiederlo a lui!) che quell’atto è una richiesta di perdono. Non si prega per chiedere una grazia, non si prega per ringraziare di qualcosa: si prega sempre per essere perdonati. Quanto è centrale il tema della colpa nel tuo lavoro, che formule trovi per espiarlo?
Per chi è cresciuto immerso nel cattolicesimo fino al collo come me la colpa è una spada di Damocle da cui è impossibile affrancarsi, probabilmente neanche passando tutta la vita in terapia. Il mio modo per alleggeririmi da quel peso è sicuramente il lavoro, che siano opere o mostre la motivazione che mi spinge è sempre la stessa. Credo che la maggior parte della gente pensa la felicità stia nel guadagnare qualcosa, ma io penso invece che più che altro sia una questione di sbarazzarsi delle tenebre accumulate di giorno in giorno.
Francesco Sala
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