Codice Italia di Vincenzo Trione (2). Ecco perché il padiglione non ci piacerà
Vi abbiamo dato la notizia per primi, facendoci raccontare a viva voce da Vincenzo Trione il suo progetto per il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, pochi minuti dopo la nomina da parte del ministero. Vi abbiamo esposto i dubbi sul metodo, le potenzialità positive. E ora continuiamo: con le criticità progettuali e… fondamentali.
Piccola premessa, tediosa ma d’obbligo: la nomina di Vincenzo Trione a curatore del prossimo Padiglione Italia non è l’oggetto di questo articolo. Lascio ad altri – numerosi in questi giorni – il compito di discuterne l’adeguatezza, di analizzare i curricula dei candidati, di speculare su presunte vicinanze con poteri più o meno forti.
Quello che vorrei considerare qui, invece, è la dichiarazione rilasciata da Trione ai colleghi di Artribune sul contenuto del suo progetto di mostra. Rileggiamola insieme: “La mostra è un tentativo di ragionare sull’identità italiana, di riscoprire quello che definirei il Codice Italia. Gli artisti invitati saranno fra i dieci e i dodici, di diversissime generazioni: ci saranno maestri ormai storicizzati degli anni Settanta, e ci saranno artisti oggi ventenni. Tematicamente, l’approccio si muoverà nell’area fra memoria e attualità: ma la ricerca sarà quella di individuare un punto di vista puntuale ed identitario, uno stile dell’arte italiana, senza cedere a descrizioni fenomenologiche, come è accaduto in altre edizioni della Biennale”.
Pur trattandosi di poche frasi, e in assenza di un documento esteso sul quale fare valutazioni più circostanziate, è impossibile ignorare un dato di fatto: quello che ci aspetta, al nostro arrivo a Venezia il prossimo maggio, è una mostra che aspira a dirci qualcosa sull’identità nazionale italiana in campo artistico. Questo concetto è talmente centrale da imporsi sin dal titolo, già annunciato, che sarà Codice Italia. Nel 2015, nel contesto di una manifestazione che si chiama “Esposizione Internazionale d’Arte”, il nostro Paese si presenterà al mondo con un progetto programmaticamente antiquato. Un progetto che non solo promette – per l’ennesima volta – di andare a ripescare nel passato esponendo maestri attivi quarant’anni fa, ma che addirittura si prefigge di individuare uno “stile italiano”, un “codice” ravvisabile nei lavori degli Anni Settanta come in quelli prodotti oggi.
L’Italia, e in particolar modo l’Italia della cultura, dimostra ancora una volta la sua devastante compulsione a guardare indietro. In un’epoca in cui il concetto stesso di nazione si fa sempre più instabile, in cui le culture sono definitivamente meticce, in cui i mezzi di comunicazione, di trasporto, di riproduzione e trasmissione delle immagini, hanno ridisegnato i concetti di spazio e di tempo, il tema urgente da indagare non può essere l’identità nazionale. L’arte del presente è prodotta da individui che il più delle volte sono nati in un posto, cresciuti in altri due, imparentati con altri quattro. Individui continuamente in viaggio, fisicamente e mentalmente. Peraltro neanche quello di identità nazionale è un concetto stabile; si rimodella ad ogni passo, insieme a confini, culture, movimenti politici.
Se esiste un “problema Italia” – ed esiste, non ne dubitiamo – è semmai una questione che va indagata a livello di sistema, di istituzioni, di politica, di mercato, non certo di stile. Il concetto stesso di stile, inoltre, implica omogeneità, somiglianza, appartenenza. La ricerca artistica è invece il territorio della diversità, dell’alternativa, della visione critica, ma anche della mescolanza, dell’ampliamento di prospettiva, dell’abbattimento programmatico di ogni barriera, sia essa fisica, psicologica o culturale. La divisione delle opere d’arte secondo l’etichetta di provenienza geografica è un criterio talmente in crisi da aver spinto molti osservatori negli ultimi anni a mettere in discussione l’esistenza stessa dei Padiglioni nazionali alla Biennale, una struttura espositiva che nasce ai primi del Novecento (il primo padiglione, quello belga, è del 1905) e ricalca il modello delle Esposizioni Universali. Germania e Francia nel 2013 hanno perfino deciso di scambiarsi, simbolicamente, di posto. La Francia esponeva il franco-albanese Anri Sala (che però vive a Berlino) nell’edificio tedesco e la Germania si appropriava del “territorio” francese con le opere del cinese Ai Weiwei, dell’indiana Dayanita Singh, del sudafricano Santu Mofokeng e del franco-tedesco Romuald Karmakar. E nel 2015 anche il Belgio ribadirà il concetto, presentando nel proprio padiglione una collettiva con otto artisti di varie nazionalità, tra cui l’italiana Elisabetta Benassi.
Infine, c’è un altro aspetto da considerare. Nonostante Trione ci tenga a sottolineare la diversità del suo progetto rispetto a quello dei suoi predecessori, il senso di déjà-vu è fortissimo. Basta confrontare le sue parole con quelle di Bartolomeo Pietromarchi, curatore della scorsa edizione: “Tutto il padiglione sarà articolato sull’idea che esiste un’identità estetica e artistica italiana, che fa dialogare anche gli artisti di diverse generazioni. Sono fili che possono essere recuperati anche andando molto indietro nel tempo”. Il tema centrale è l’identità artistica italiana, l’arco temporale è molto ampio, la chiave è il confronto tra le generazioni.
Andiamo ancora indietro nel tempo per ricordare che il contestatissimo padiglione di Vittorio Sgarbi, quello del 2011, coincideva con il 150esimo anniversario dell’unità d’Italia, con relativi vessilli tricolori assortiti e un titolo folkloristico (L’arte non è cosa nostra). Anche qui, seppur con intenti e risultati di tutt’altro tenore, lo sguardo era rivolto indietro, e l’arco temporale abbracciato vastissimo (c’era persino un presunto Piero della Francesca).
La malattia culturale che partorisce questi progetti è la stessa che alimenta la retorica del “made in Italy”, una favoletta ormai buona solo a nutrire celati nazionalismi e a costruire campagne di marketing. È il frutto di un orgoglio mal riposto, di una visione passatista, di un’ossessione feticistica verso una storia ormai lontana. Siamo un Paese con lo sguardo fisso sullo specchietto retrovisore, che non riesce a trovare un’identità nel presente e dunque la recupera sempre e solo rovistando nel passato. Quello di cui avremmo bisogno, invece, è un progetto coraggioso, destabilizzante, che peschi a piene mani in quella fetta esigua di ricerca artistica che nonostante il clima mortifero ancora esiste e resiste. Lasciando stare una volta per tutte l’italianità, un valore che mai come ora è stato così poco spendibile, così poco luminoso, così malinconicamente fuori tempo.
Valentina Tanni
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati