Quella che è una precondizione sostanziale di ogni discorso incentrato sulla cultura e sulla creatività viene in generale sorvolata, e va dunque continuamente precisata e definita. Non solo la creatività è alla base delle produzioni culturali e creative e della filiera industriale che fa ad esse riferimento diretto, ma oggi è e rappresenta molto di più, in termini di ruolo e di impatto. Uno degli errori di prospettiva più comuni relativi a questo tema consiste infatti nel considerare i diversi ambiti produttivi, innovativi, economici come disconnessi e separati, in base a una compartimentazione che non esiste più nei fatti, ormai da molto tempo, nelle società avanzate: questo errore è particolarmente evidente, per esempio, proprio nei Paesi che all’interno della presente crisi non riescono a uscire, a livello di visione politica e di policies concrete da attuare, da una logica totalmente concentrata sulla “manifattura” o sulla “grande industria”, a discapito delle idee e dell’innovazione (ogni riferimento all’Italia non è affatto casuale).
Una delle ragioni strutturali dell’invasività di questa crisi è proprio la sua capacità di colpire l’obsolescenza delle infrastrutture, non solo materiali ma anche e soprattutto immateriali. Mentali. E, dunque, recede chi non si rende conto drammaticamente di come innovazione e creatività siano fattori assolutamente determinanti e interconnessi per la ricostruzione della propria economia (è per questo che uno dei settori più fecondi di analisi e di studio in questo momento è proprio quello relativo all’interconnessione e all’interdipendenza tra filiere creative e filiere industriali).
La creatività non è perciò un territorio a sé stante, indipendente dalle logiche dei territori produttivi e tutto sommato marginale, ma è un’attitudine che attraversa e governa tutti gli altri territori: è la palestra fondamentale che allena qualunque settore produttivo e imprenditoriale a pensare, applicare e sviluppare idee nuove, cioè all’innovazione continua. La creatività è al centro di ogni territorio economico e produttivo che voglia pensarsi considerarsi configurarsi in uno scenario internazionale, e deve dunque essere posta coerentemente al centro di politiche industriali che siano aggiornate a economie fortemente innervate di conoscenza, di cultura e orientate alla produzione di senso e di identità.
In Italia la concentrazione autarchica e autoreferenziale sul “sistema dell’arte” – l’illusione che l’arte potesse vivere su una specie di piano parallelo, in una sorta di bolla… – ha fatto sì che questo territorio accumulasse un ritardo grave rispetto ad altri campi culturali (la letteratura, per esempio) e che sviluppasse una forma acuta di dissociazione rispetto al presente. Un post-post-concettualismo di risulta – divenuto nel corso dell’ultimo ventennio Maniera Internazionale – rappresenta un intero sistema di lingua e di convenzioni, un recinto formale e formativo che di fatto non permette alla maggior parte degli autori di confrontarsi criticamente con la realtà che li circonda, di interpretare il mondo attraverso l’arte e la pratica creativa – proprio perché questo sistema-recinto non riconosce alcuna prospettiva al di fuori della propria. (E, d’altra parte, quando si continua a celebrare la “morte delle ideologie” si omette regolarmente di specificare che essa è la morte di “tutte le altre” ideologie, rispetto all’unica vincente al momento, vincente al punto di inabissarsi e di rendersi invisibile: l’ideologia perfetta si mimetizza, si rende trasparente e irriconoscibile in quanto tale. Scompare del tutto perché pervade tutto.)
Da anni nel nostro Paese ci si lamenta della “scomparsa dell’intellettuale” (e quindi del critico, dell’artista ecc.) come figura di riferimento il cui ruolo è quello di impiegare i suoi strumenti culturali e umani per interpretare le trasformazioni della società e per criticare l’esistente: ma questa lamentatio è solo una distorsione prospettica, una delle tante in azione oggi. Nessuno ha privato gli intellettuali della loro funzione e della loro voce: lo schema è piuttosto quello dell’abdicazione. Per paura, per convenienza, perché era più comodo così.Come diceva Hunter S. Thompson all’indomani dell’11 settembre a proposito del giornalismo d’inchiesta: “Tutti si lamentano che non ci sia più spazio; in realtà c’è un sacco di spazio, solo che quasi nessuno lo vuole occupare”. È probabile che oggi si stia facendo faticosamente e traumaticamente strada un maggiore desiderio – e consapevolezza – di tornare a occupare quello spazio.
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #21
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