Intervista con Daniele Galliano. Viaggi acidi, Biennale di Venezia e Giuseppe Culicchia
Se siete stati ad Artissima, l’avrete sicuramente notata. È la serie “Bad Trip” di Daniele Galliano, che occupava una intera parete dello stand della Galleria In Arco. Ne abbiamo parlato con lui, facendoci raccontare le ragioni della firma condivisa con gli “unknown” e di diverse altre questioni.
La tua ultima serie si intitola Bad Trip: spiegaci.
Bad Trip nasce da una vecchia crosta di un pittore della domenica che mi venne affidata da una mia vicina di studio, affinché io decidessi se buttarla o farne qualcosa. Vedendola mi è venuta l’illuminazione. Ho pensato che quel paesaggio, che io non sarei mai stato capace di dipingere, poteva fare al caso mio. Da lì mi viene l’idea che quegli stessi scenari potevano essere l’oggetto del viaggio psichedelico, il “bad trip”, appunto, di personaggi stralunati usciti da rave. Le tele recuperate si sono così rivelate funzionali ai miei protagonisti e alla loro allucinazione.
L’esperimento è poi diventato una serie, che prosegue in altre otto tele di altrettanti pittori improvvisati, che ho comprato al Balôn, il mercato delle pulci di Torino.
Così si spiega la firma “unknown + Galliano”…
La firma è doppia, così come le mani che sono intervenute sulle tele sono stratificate. In Bad Trip però l’ordine normale delle cose si ribalta, la sequenzialità si capovolge, lo sguardo si inverte. Nasce infatti prima l’oggetto dell’allucinazione e poi solo dopo, con il mio intervento, esistono e fanno la loro comparsa i soggetti che, grazie al loro stato di alterazione, riescono a vedere quello spettacolo. Sono loro che permettono alla vecchia crosta di rivivere e di ribaltare completamente l’ontologia del quadro.
Hai presentato la serie allo stand di In Arco ad Artissima. Feedback?
Il pubblico della fiera lo ha trovato spiazzante e ironico. È stato divertente osservare le loro reazioni, man mano che entravano nei quadri e nella loro logica storta.
Il libro che accompagna l’operazione contiene anche un testo di Giuseppe Culicchia. Com’è nato l’incontro?
Con Giuseppe c’è da sempre un rapporto di stima e amicizia. Avevamo un antico desiderio di collaborazione, che si è finalmente concretizzato con un racconto scritto ad hoc per il progetto. È un tipo di esperimento che amo particolarmente. Quando scrittura, pittura, musica sanno incontrarsi, si ispirano vicendevolmente e danno sempre grandi risultati.
Se dovessi dare una definizione della pittura oggi, nel 2014, che parole useresti?
In gran forma! Più che mai all’altezza di raccontare la realtà e di andare oltre, in quella dimensione che gli appartiene di diritto, quella spirituale, così osteggiata dalle forze che ci programmano per sprofondare verso il basso, anziché tenere il baricentro puntato verso la bellezza e l’infinito.
Un artista che ti ha ispirato e uno che ti piace. E perché.
Quello che mi ha folgorato dalla mia infanzia è stato van Eyck. I modelli devono essere i più alti in assoluto. L’assoluto, appunto. Tra i contemporanei amo particolarmente Neo Rauch, che ha inventato uno stile multidimensionale e atemporale, dandosi la possibilità di non avere limiti e confini.
Si fa un gran parlare in questi giorni, complice la nomina di Vincenzo Trione a curatore del Padiglione Italia alla prossima Biennale di Venezia, di “stile italiano”. Secondo te esiste? Se sì, cosa lo caratterizza?
Magari avessimo la forza di riprenderci il potere internazionale che il Paese della luce e della pittura ha perso da tempo. Il resto del mondo si chiede ad alta voce dove sono gli artisti italiani, dove vengano nascosti e come mai compaiono solo i soliti quattro o cinque nomi in tutti gli eventi. Bravi artisti, ma allineati a una tendenza che ha sostituito il cinismo all’amore. In bocca al lupo a Trione, magari riuscisse anche a riprendersi il Padiglione Italia, quello vero. Se fossimo un Paese con ancora qualche tipo di potere, una cosa così abnorme non l’avremmo mai vista, invece vediamo il Padiglione Italia alla fine della fiera, ops, scusate della biennale…
La più classica delle domande conclusive: progetti futuri?
Una monografia Skira di prossima uscita, curata da Demetrio Paparoni, con testi di Carter Ratcliff, una conversazione con Arturo Schwarz e altri preziosi contributi. Un progetto di performance che vedrà la realizzazione di un dipinto sonorizzato dal vivo dai Marlene Kuntz, in un importante museo italiano. Una mostra a Ginevra, una a Lima, la partecipazione a Personal Structures nell’ambito della 56. Biennale di Venezia, un soggiorno a Berlino, un libro a quattro mani con Enrico Remmert, un disco con Totò Zingaro in veste di armonicista e un sacco di altre cose.
Marco Enrico Giacomelli
http://www.danielegalliano.com/
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