Italiani a New York: Arianna Carossa e il suo primo libro
Fondere oggetto e concetto così da creare una nuova, leggiadra unità. In “The aesthetic of my disappearance”, primo libro di Arianna Carossa, l’artista genovese di nascita e newyorchese d’adozione si fa intervistare su nove mostre immaginarie, che non avranno mai luogo se non nella fantasia del curatore che la intervista, dell’artista e del lettore.
Presentato in occasione dell’art book fair al MoMA PS1, The aesthetic of my disappearance è un’edizione limitata di 100 esemplari, distribuita da Printed Matter a New York e a Corso Como 10 e O’Artoteca a Milano. Come anticipazione di una conferenza che si terrà a marzo all’Istituto Italiano di Cultura a New York, e prima della sua mostra personale da Rooster Gallery che aprirà il 4 dicembre, abbiamo fatto qualche domanda ad Arianna Carossa.
Nel libro The aesthetic of my disappearance chiedi a nove curatori di intervistarti su nove mostre inesistenti. Da cosa è nata l’ispirazione per questo progetto?
Dalla noia. Hai mai sentito, al mare d’estate all’ora della canicola, sotto il sole, un dolore straziante? Per me la noia è un dolore simile. La ridondanza in linguistica è quando l’uso o meno di una parola non costituisce differenza ai fini del significato. Una noia data dal ridondante.
Qual è stata la scoperta più interessante nel non mettere limiti alle possibilità di una mostra?
L’emancipazione dell’idea in relazione all’esattezza della parola. Cercar di ricostruire la fisicità attraverso l’impalpabile pulviscolo delle parole, come dice Calvino descrivendo Lucrezio.
Qual è stata la sfida più grande di questo progetto?
Riuscire a far diventare densa una sostanza lieve come le foglie. Come le foglie nelle poesie di William Carlos Williams, ad esempio, dove la descrizione minuziosa di un ciclamino arriva a farne provare sua leggerezza.
I luoghi delle mostre sono stati scelti dai curatori. Tu dove l’avresti fatta? E quale tra i luoghi scelti vorresti che fosse realmente la location per una mostra?
Sì, i luoghi sono stati scelti dai curatori, era obbligatorio lo facessero. Il gioco era anche questo: naturalmente mi interessava che facessero delle ipotesi, che si sbilanciassero, spingendosi a delimitare i miei confini. La risonanza dei luoghi proposti credo abbia preso peso proprio nella libertà data dall’assenza del lavoro.
Quali credi siano le differenze tra il pensare un concetto di opera e un concetto di mostra? Quando pensi a un’opera, pensi prima al contesto in cui collocarla o sono due processi indipendenti?
Progettare un lavoro o una mostra sono due esperienze simili e non lontane da un meccanismo formato da frammenti funzionanti singolarmente ma che contestualmente aggiungono qualcosa che si chiama insieme. Insieme ovvero umano. L’opera e la mostra hanno entrambe qualcosa di profondamente umano, l’olfatto.
Come ha cambiato questo progetto l’approccio con le tue opere? E come la progettazione di mostre future?
Incredibilmente lo sforzo compiuto nel concepire qualcosa tralasciando l’aspetto fisico è stato più difficile del previsto: l’opera si fa facendola, direbbe Vattimo, e io questo aspetto l’avevo sottovalutato. Questa esperienza violenta nella sua lievità ha scatenato una freschezza nel togliere.
Vedi il libro stesso come un’opera finita o come l’incipit di un progetto?
Lo vedo come un’unità ovvero come un puntino ondeggiante in uno spazio solido.
Il libro è anche in un certo senso una provocazione ironica sulla situazione odierna dell’arte contemporanea? Qual è una cosa fondamentale che vorresti cambiasse nel prossimo futuro?
Ho sempre un sacco di opinioni fantasiose e moltissime teorie lungimiranti, ma alla fine ha sempre il sopravvento una sorta di epochè dell’anima che me le fa apparire noiose subito dopo averle formulate. Nessuna provocazione, solo il mio sentire e i miei modi.
Da anni ormai vivi a New York. Come si sta evolvendo secondo te il panorama contemporaneo della città? Qual è la differenza più lampante rispetto a quando sei arrivata?
La differenza sostanziale è il mio inglese. Il mondo appare diverso quando hai la forza della lingua. L’ellenismo qui ha il suo fulgore, New York come Pergamo non può farsi sfuggire nulla e, in questo tutto, l’unico pericolo è l’appiattimento dato dalla moltitudine.
Qual è la tua principale fonte d’ispirazione?
L’empatia: mi interessano le persone esattamente come gli oggetti. Mi interessa tutto quello che mi dice “Ciao io sono io, tu?”.
Ludovica Capobianco
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