Milano, Munari, Campari. Triangolo creativo
Il 1 novembre 1964 inaugurava a Milano la linea rossa della metropolitana disegnata da Franco Albini. E Bruno Munari creava un manifesto pubblicitario che realizzava nella sua forma più riuscita l’utopia futurista. Come ci racconta Luca Massimo Barbero, anticipando ad Artribune i temi del talk con cui, alla Galleria Campari, evocherà quella straordinaria, probabilmente irripetibile, stagione creativa.
Partiamo da Bruno Munari, che incarna il ruolo dell’artista, del designer e in questo caso anche quello del pubblicitario. Disegnando attorno alla sua figura un triangolo: equilatero? Oppure c’è nella sua esperienza un aspetto dominante sugli altri?
Credo che trattandosi di Munari i lati siano del tutto “giocabili” e gli angoli possano diventare facilmente concavi o convessi! Nella nostra conversazione in programma alla Galleria Campari ci sarà in primis il tentativo inutile – proprio come le sue Macchine!– di circoscrivere Munari: per cui il lato vincente sarà quello della sua irreprensibile sfuggevolezza, che da un certo punto di vista lo valorizza per la sua genialità mentre dall’altro lo penalizza, dal momento che la Storia dell’Arte non riesce, non è mai riuscita, a ingabbiarlo. Poi toccheremo il tema del rapporto, che per Munari è completamente rovesciato, tra arte alta e progettazione, quindi tra l’arte come mestiere e il mestiere come arte; e, infine, quello del legame con la comunicazione.
Proprio le intuizioni del Munari graphic designer, specie in riferimento alla comunicazione d’impresa, sono aspetto che rendono la sua parabola creativa così illuminante per noi oggi…
Munari parla con una sorta di preveggenza, già negli Anni Settanta, del mondo del consumo che stimola soltanto gli appetiti animali del pubblico: e qui si dimostra, ancora una volta, tutta la sua attualità. Il pensiero di Munari, al di là della sua produzione artistica, si regge tutto su questa dialettica interna tra pensiero e azione, tra gioco e produzione, un alto e un basso che mescola perfettamente quando parla ad esempio di “naturalezza industriale”.
Munari ha lavorato in un’età fortemente ideologizzata, nella quale il ruolo politico dell’artista era spesso fortissimo. Ma in cui era facile che si creassero rapporti intensi con il mondo dell’impresa (pensiamo a Olivetti o alla stessa Campari); mentre oggi che non ha più senso parlare di lotta di classe e che l’artista è in effetti libero dalle ideologie sembra ci sia più pudore, da parte sua, a legarsi a brand per operazioni commerciali. Come si spiega questo iato?
So di non dire qualcosa di troppo popolare, ma credo che la maggiore inventiva venga agli artisti quando si sentono un po’ sotto scacco e sotto costrizione. Può sembrare un paradosso, ma il vero colpo di genio, ciò che fa di un artista un creatore e non semplicemente un produttore di oggetti, arriva quando questi avverte una tensione – politica, ma anche in termini di posizione di mercato – che lo porta ad un dialogo con il nemico. E nel creare cortocircuiti di questo genere Milano fu maestra, proprio perché vive da sempre una forma di fusione e felice confusione tra arti, industria e progettazione visuale.
Il manifesto disegnato da Munari per Campari nel 1964, da cui parte questa riflessione sul suo lavoro, diventa allora qualcosa di più di una pubblicità…
Milano era in quegli anni la città della programmazione visuale, e questo manifesto lo dimostra chiaramente. Perché è pensato per essere visto in movimento, con un’idea se vogliamo cinetica – e sappiamo quanto Milano fu determinante in quegli anni per il movimento dell’arte cinetica, e quanto lo fu il sostegno di imprese come Olivetti – e perché si riallaccia alle radici futuriste di Munari: credo che quel manifesto sia un punto di arrivo. Il mio visitatore, il mio viaggiatore viene “sparato” dentro questi tubi della metropolitana e riesce a leggere il nome Campari in tutte le sue declinazioni tipografiche…
Veniamo alle noti dolenti: cosa resta di quella Milano, a livello di capacità progettuale? La città può rivendicare quel ruolo di motore creativo?
L’attualità ha un problema post-moderno, cioè quello di basarsi solamente sulla celebrazione del passato, non capendo che questo è sì uno sprone per il futuro ma non è un solco nel quale ripiantare continuamente lo stesso seme. In riferimento a quella Milano parliamo di una città che viveva come se avesse un’Expo ogni due anni: pensiamo a cos’era il cantiere della Triennale, a cos’era il quartiere della Fiera! A partire dagli Anni Trenta, con gli interventi nei parchi pubblici di Rho e Melotti, arrivando poi al Lucio Fontana del Padiglione Breda, c’era una concorrenzialità fortissima rispetto al concepire una ricostruzione futurista dell’universo che assumeva connotati squisitamente milanesi. Con un concorso molto forte da parte degli architetti.
Un ruolo, quello dell’architetto, sempre più difficile da inquadrare dal punto di vista intellettuale: sempre più confuso con la figura dell’artista o quella del designer…
L’architetto si è divorato i suoi figli: cioè si è sostituito al grafico, all’operatore visuale, in certi casi persino all’artista. Anche per questo, allora, vale la pena rifarsi a Munari: perché per lui il design, la progettazione, non si possono fare da soli. Per cui noi oggi celebriamo grandi unicità, grandi individualità, mentre all’epoca il lavoro era molto collettivo.
Quindi Expo è da considerare ormai definitivamente, benché a priori, un fallimento, visto che non riesce a creare un clima di energie rinnovate?
Non penso sia un problema legato ad Expo. Quando il design diventerà di nuovo “utile”, nell’accezione del termine alla Munari, allora potremmo dire che sì, le cose stanno cambiando.
Francesco Sala
L’incontro pubblico con Luca Massimo Barbero si tiene negli spazi di Galleria Campari, nell’head-quarter dell’azienda a Sesto San Giovanni, giovedì 20 novembre alle 18.30. La partecipazione è libera, previa prenotazione all’indirizzo [email protected]
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