Non chiamatela colonna sonora
L’elettroacustica è un ingrediente essenziale del cinema mainstream. Ma non è sempre stato così. Dai primi esperimenti di sound design alla scrittura di vere e proprie partiture sulla traccia ottica, fino alla diffusione olofonica, il rapporto tra suono e immagine in movimento ha compiuto straordinarie rivoluzioni. Il cui passato appare avvolto da un’aura tecnologicamente inimitabile.
Gravity, lo spettacolare thriller spaziale del messicano Alfonso Cuarón uscito in tutto il mondo nel 2013, è un modello di simulazione 3d. Non a caso, il lavoro svolto per ricreare la sensazione acustica del vuoto è valso l’Oscar al team di sound designer del film. Tuttavia quest’idea del vuoto, concepita per il nuovo sistema Atmos a 128 canali (in Italia lo si trova solo in pochi cinema multisala, nei pressi di qualche raccordo stradale di città, o nelle esauste borgate di provincia), è così esteriore da far dimenticare che lassù, fuori dall’atmosfera, la propagazione delle onde sonore sarebbe inavvertibile ai nostri sensi. L’immersione in cui si è gettati durante la proiezione del film, così come la ricerca d’interattività affine a quella di un videogioco, spostano il peso dell’emozione dal mentale al corporeo. L’udito è ricondotto a una forma di tatto per cui non basta più iperamplificare l’azione, ma occorre anche poterla sentire vibrare: uno zelo tecnologico, che orienta tanto la poetica del film quanto la politica dei suoi investitori.
Il suono di Gravity è strabiliante, ma il realismo con cui viene entusiasticamente presentato, nella misura in cui è sprovvisto di ogni fondamento, rovina il magico potere di verità della finzione cinematografica. All’opposto, il celebre accostamento di Strauss e i modellini delle astronavi in orbita in 2001 Odissea nello Spazio, essendo impensabile, soddisfa le più celestiali, e in fondo realistiche, rappresentazioni del vuoto extraterrestre.
Evidentemente il progresso dell’elettroacustica è indivisibile da quello della tecnologia, e oggi lo spettatore viene invitato a spostarsi gradualmente al centro del prodotto-spettacolo, come consumatore e destinatario delle stimolazioni neurofisiologiche. Ma non sempre è stato così: il rapporto tra forma e contenuto ha spesso cercato equilibri diversi.
Uno dei più antichi documenti di ricerca audiovisiva è la composizione per strumenti automatici di George Antheil nel film cubista Ballet Mécanique (1924) di Fernand Léger e Dudley Murphy. Il materiale, che comprende motori di aeroplani, pianoforti automatici e non, campanelli elettrici, sirene e percussioni, è organizzato da Antheil in una struttura sonora ricca di paradigmi elettronici, sebbene non ci sia propriamente traccia di musica elettronica. Qualche anno più tardi, in Romance sentimentale, Grigori Aleksandrov e Sergei Eisenstein sviluppano la colonna sonora in parallelo fra l’intervento diretto sulla traccia ottica e il tradizionale commento dell’orchestra, creando un contrappunto visivo-musicale unico.Di tanto in tanto, il matrimonio tra il cinema e le tecnologie elettroacustiche genera risultati veramente estremi. È questo il caso dello spot pubblicitario della birra Schwechater girato da Peter Kubelka nel 1958 (probabilmente il più inconsumabile di tutti i tempi) in cui l’artista ritaglia, sovrappone, disassembla, brucia, trasfigura la fotografia e il sonoro fino a ottenere un “rumore nero” in cui ogni possibile traccia narrativa del girato risulta annientata. Diversamente estremo è Wavelength, film sperimentale del 1967 diretto da Michael Snow, i cui quarantacinque minuti di zoom ottico seguito dal suono di una sinusoide pura crescente costituiscono una dichiarazione radicale di sinestesia audiovisiva.
Un tentativo più musicale di sonorizzazione è rintracciabile in Les Astronautes di Walerian Borowczyk e Chris Marker, del 1959. In questo film, Andrzej Markowski concepisce musica e design come un corpo unico; un po’ come nei film d’animazione del dopoguerra, ma usando mezzi che ricordano piuttosto le manipolazioni elettroniche di Dockstadter. Sono gli anni degli Uccelli di Alfred Hitchcock e le nuove applicazioni della radiofonia spingono i compositori a riflettere sulle possibilità spaziali della musica e a impiegare concetti come sequenza, piano, montaggio nella ricerca di forme di visualizzazione del suono. Sono celebri le collaborazioni di Bernard Parmegiani, Krzysztof Penderecki e John Cage con il cinema avantgarde, ma anche le ricerche condotte autonomamente da Iannis Xenakis nel campo della notazione grafica, le quali tuttavia rimangono focalizzate principalmente sulla composizione, in un processo in qualche modo inverso, che va dalla visione alla generazione del suono.
Da oltre sessant’anni l’elettronica è la psyché del cinema e della musica: basti pensare alle dilatazioni sonore di Eduard Artemev in Stalker, all’inimitabile uso dell’amplificazione ambientale fatto da David Lynch in Eraserhead, oppure alla geniale rilettura della musica classica tedesca in Arancia Meccanica e alle sessioni live di sintetizzatore di Jerry Goldsmith in Alien, solo per citare alcuni esempi celebri.
Non è compito nostro elencare qui i film con l’elettroacustica più influente, ma vale pur sempre la pena ricordare come i lavori più significativi del nostro tempo nascano in una misura di suono e luce interna e ulteriore, in cui la tecnologia è dissolta e resa invisibile.
Alessandro Massobrio
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #21
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