Moby, è nata prima la tua passione per la fotografia o per la musica?
Entrambe sono arrivate nella mia vita molto precocemente. A dieci anni ho cominciato a suonare la chitarra, e sempre a quell’età mio zio, Joseph Kuglelsky, che all’epoca faceva foto per il New York Times, mi ha regalato la prima macchina fotografica, una Nikon F.
Come sei arrivato a professionalizzarti in entrambe le arti?
Rispetto all’apprendimento delle tecniche fotografiche, con la chitarra riuscivo ad avanzare più rapidamente. Di conseguenza, il successo musicale è arrivato molto prima, ma non ho mai smesso di praticare nessuna delle due arti. All’università ho preso due lauree, una in filosofia e l’altra in fotografia.
A proposito di tecniche fotografiche, come hai gestito il cambiamento da pellicola a digitale?
Ricordo che cominciai a parlare di macchine digitali con mio zio nel 1989. Coscienziosamente, cominciai a utilizzarle dal 1993.
Com’è cambiato grazie a questa tecnologia il tuo modo di fare foto?
Non molto. Da ragazzo non avevo molti soldi, e per me stampare foto era un costo, quindi ci mettevo tantissimo tempo prima di fare uno scatto. Oggi, anche se con il digitale si possono fare milioni di scatti per una sola posa, io per la preparazione di ognuna prendo ancora tempo, come quando ero un ragazzo con le tasche vuote.
Cosa ti manca di più del passaggio tra pellicola e digitale?
Beh, come a tutti, mi manca l’ambiente della camera oscura.
Com’è nata questa tua collaborazione con la Emmanuel Fremin Gallery?
Merito di un amico in comune, Lee Milazzo. Lee ha una galleria in Connecticut e conosceva bene sia me che Emmanuel.
Le foto di questo show sembrano venire da mondi lontanissimi. Sono state scattate duranti i tuoi viaggi in giro per il mondo?
Tutt’altro. Sono state fatte nel mio backyard a Los Angeles. Tranne una, che ho scattato nel supermercato dove vado di solito.
Il tuo show fotografico è presentato come una postapocalisse delle coscienze raffigurata attraverso spazi anonimi e vuoti, riempiti solo da corpi dai volti mascherati, perché?
Perché è quello che vedo intorno a me: ambienti urbani alienati quanto alienanti.
Per la tua mostra hai scelto il titolo Innocenti, ma io che ho potuto dare appena uno sguardo superficiale vedo invece tanti scatti minacciosi.
E come mai? Se ti guardi intorno con un approccio pragmaticamente freddo, le maschere che vedi sono solo pezzi di plastica.
Perché con la tua mostra mi evochi una desolazione feroce, una totale assenza di consolazione. Dalle tue foto sembra che non solo non ci sia niente da sperare, ma neanche da disperare. Ma davvero il mondo che vedi è così?
Quello che vedo io è che ogni singolo è innocente. È la collettività a essere colpevole.
Perché quei pezzi di plastica in faccia a tutti questi innocenti?
Si vergognano a causa del loro ruolo in una società e dentro una cultura incredibilmente e inutilmente distruttiva.
Parli di una postapocalisse delle coscienze, in preparazione di un’apocalisse reale. Nessuno di noi è morto, nessuno di noi è vivo, siamo soltanto maschere?
Siamo qualcosa. C’è una consapevolezza diffusa di quello che ho scelto di rappresentare, ma la gente comune, gli innocenti, invece di cercare una qualche formula segreta per salvarsi da questa apocalisse in arrivo, continuano a vivere le loro vite, la propria apocalisse, come se dovessero recitare un copione prestabilito da qualcun altro.
Il copione della tua vita ti ha fatto nascere a Harlem, quindi hai vissuto infanzia e giovinezza nel Connecticut. Poi, fra una tournée e l’altra, hai abitato a New York, fino a quando pochi anni fa hai deciso di trasferirti a Los Angeles. Quali sono state le ragioni di questo tuo ultimo trasloco?
Intanto perché sono un ex alcolista, e a Los Angeles riesco a essere sobrio. Invece quando vivevo a New York ero sempre fradicio.
Ti credo, anche se c’è qualcos’altro dietro a questa scelta, però…
Mi dispiace dirlo, ma la New York che ho vissuto io semplicemente non esiste più. Tutto è scomparso, diciamo, da una quindicina di anni. Gli artisti di questa città vivono, vivono preoccupati. I costi sono troppo alti. New York si è svuotata della sua anima e dei suoi artisti in meno di una generazione. Oggi non c’è più nessuno. A Los Angeles invece c’è una comunità di artisti alla quale mi sono unito volentieri.
Prossima tournée?
Farò soltanto due date, entrambe in California. Una all’Hollywood Masonic Temple e l’altra all’Integratron. L’Integratron è stato costruito da George Van Tassel. Gli sono apparsi gli alieni in sogno e gli hanno spiegato come costruire un edificio in grado di offrire un’acustica perfetta. E così l’ha costruito. Tutto questo grazie agli alieni, capisci? Sogno dopo sogno, gli hanno spiegato come fare.
Mi stai dicendo che credi negli alieni?
In quelli che hanno una spiccata sensibilità acustica, direi proprio di sì.
Per concludere, vuoi salutare Eminem? È un po’ che non vi insultate attraverso i media.
Posso solo aggiungere che non capisco come un uomo come Eminem, qualcuno che ha venduto milioni di dischi e che ha raggiunto il successo che ha raggiunto, sia sempre e costantemente incazzato. Davvero non mi spiego come faccia.
Incazzatura e musica sono argomenti a volte fortemente interconnessi. A proposito, in pochi sanno che la tua prima band è stata The Vatican Commandos, un gruppo hardcore punk. Suoni ancora questo genere di musica, diciamo, rabbioso?
Sì, insieme a Travis Barker [batterista dei blink 182, N.d.R.] e Toby Morse [cantante degli H2o, N.d.R.].
Avete anche un nome?
Certo: siamo i Friends of Animals.
C’e’ un cd in arrivo insieme a loro?
Chissà.
Alessandro Berni
New York // fino al 31 dicembre 2014
Moby – Innocents
EMMANUEL FREMIN GALLERY
547 West 27th Street – suite 510
www.emmanuelfremingallery.com
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