Un italiano al Getty. Intervista con Davide Gasparotto
Da Parma a Los Angeles, passando da Modena. Queste le tappe principali della brillante carriera di Davide Gasparotto, recentemente nominato Senior Curator dei dipinti del Getty Museum. Lo abbiamo intervistato.
Qual è stato il percorso che ti ha condotto a una nomina così prestigiosa? I tuoi contatti con gli Stati Uniti sono di lunga durata, ma in particolare c’è qualcuna, fra le tue ricerche, che ha destato maggiormente l’interesse del Getty?
Prima di tutto credo che la nomina sia il riconoscimento di un percorso professionale e di ricerca condotto sempre con serietà e rigore. Poi, certo, ho mantenuto stretti contatti con il mondo anglosassone, fin dai tempi dalla borsa di studio al Warburg Institute di Londra, nell’ormai lontano 1999, probabilmente perché lì gli studi sulla scultura e le arti decorative, che mi hanno impegnato per molto tempo, sono coltivati con maggior passione che da noi qui in Italia, dove il peso della tradizione longhiana – più attenta alla pittura – è ancora molto forte. Indubitabilmente, le esperienze statunitensi, prima a Washington nel 2007 e più di recente a New York, hanno rappresentato una svolta molto importante nel mio percorso; in particolare l’anno trascorso al Metropolitan ha lasciato un segno profondo. Da quell’esperienza è cominciata a crescere un’inquietudine e un’insoddisfazione per le condizioni di lavoro in Italia. Credo che al Getty siano piaciuti da un lato il mio profilo di studioso impegnato e dall’altro la mia esperienza di carattere, diciamo così, più “pratico”, gestionale, maturata soprattutto nei lunghi anni del lavoro in Soprintendenza, insieme alla conoscenza dei temi della conservazione e del restauro.
I tuoi studi vertono da sempre sul Rinascimento italiano: il patrimonio del museo conserva già importanti nuclei di questo periodo? E che linee guida intenderai seguire per incrementare la raccolta?
Sì, è vero, il mio periodo d’elezione rimane il Rinascimento italiano, e fra i curatori attuali del museo non ci sono specialisti di questo settore, mentre ci sono studiosi bravissimi di pittura fiamminga e olandese, del Barocco italiano e dell’Impressionismo e post-impressionismo. In qualche modo dunque contribuirò a riempire un “vuoto” di competenze specifiche. La collezione del Getty spazia dal Medioevo al primo Novecento, da Simone Martini a van Gogh, con un respiro davvero europeo, che passa attraverso Rubens, Rembrandt, David, Manet… Ci sono già alcuni importantissimi capolavori del Rinascimento, da Carpaccio a Pontormo, da Correggio a Tiziano. Forse, abituato ai nostri musei, quello che vedo mancare è la cornice intorno ai capolavori assoluti, le opere di quei pittori che contribuiscono a creare l’immagine d’insieme di un certo periodo storico. Ma oggi come oggi, se teoricamente si potrebbe stilare un piano ideale delle acquisizioni e dei desiderata, gli acquisti saranno necessariamente dettati dalle disponibilità del mercato. Dunque la mia politica di acquisizione avrà senza dubbio come obiettivo quello di cercare di riempire i “buchi” della collezione, ma guarderà soprattutto alla qualità e allo stato di conservazione delle opere.
Il ruolo che andrai a coprire prevedrà incarichi di grande responsabilità: pensi che saranno compatibili con l’attività di ricerca e di studio che da sempre ha caratterizzato il tuo lavoro?
Sono certo che la mia vita professionale cambierà in meglio rispetto a ora, se non altro perché avrò la possibilità di concepire e portare avanti progetti con il necessario supporto finanziario nonché di saperi ed esperienze che qui in Italia scarseggiano. Poi, come abbiamo già detto, avrò la facoltà di decidere acquisti importanti. Certo, il mio tempo sarà quasi completamente assorbito da questi impegni, ma sono abituato a studiare nei momenti liberi: è quello che faccio faticosamente da molti anni, perché anche la vita di Soprintendenza – con tutti gli impegni istituzionali – non lascia certo molto spazio alla ricerca.
In questi ultimi anni il dibattito sulla cosiddetta “fuga di cervelli” è animato e sempre all’ordine del giorno e proprio su questo numero di Artribune Magazine facciamo il punto della situazione. Ora che la stai vivendo in prima persona, cosa ne pensi? Hai avuto qualche scrupolo nell’accettare l’incarico a Los Angeles?
Credo che lasciare il proprio Paese non sia facile per nessuno, ma lasciare l’Italia per uno storico dell’arte è particolarmente difficile. La nostra linfa vitale non sono solo le opere conservate nei musei, ma anche quelle conservate nelle chiese, e soprattutto la trama che lega le opere ai contesti urbani, ai monumenti, alle architetture, ai paesaggi. Tutto questo naturalmente mi mancherà molto. Non me la sono sentita però di chiudere la porta in faccia a un’opportunità di lavoro così interessante. Il Getty non è soltanto un museo che conserva opere d’arte, ma accanto al museo ci sono un istituto di ricerca e un istituto per la conservazione del patrimonio artistico che attirano studiosi e professionalità altissime da tutto il mondo. Sono sicuro che troverò un ambiente molto stimolante, dove il confronto con gli altri mi aiuterà a crescere ulteriormente, e questa è una delle ragioni fondamentali che mi ha spinto ad accettare l’offerta.
Hai già un sogno che cercherai di realizzare una volta giunto al Getty? Un’idea di mostra che potrebbe segnare la tua prima “impresa”?
I dipinti della collezione mi hanno già suggerito molte idee per una serie di mostre temporanee. C’è un progetto, però, che mi piacerebbe realizzare. J. Paul Getty non aveva un interesse spiccato per la pittura, preferiva di gran lunga l’antichità classica, e cominciò a collezionare dipinti soprattutto per arredare le proprie residenze. Ma aveva una particolare inclinazione per il Settecento, non solo per la pittura ma anche per le arti decorative. Penso quindi a una grande mostra sul Settecento europeo, che leghi insieme architettura, pittura, scultura e arti decorative intorno alla figura di un grande protagonista della storia del gusto di quel secolo, amico e committente di artisti del calibro di Tiepolo, Canaletto, Liotard: Francesco Algarotti.
Marta Santacatterina
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #21
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