Arte e industria: un legame produttivo
A poche ore dalla notizia assurda relativa alla “chiusura” di Altaroma – leggete gli articoli di Helga Marsala e Clara Tosi Pamphili – ripubblichiamo un articolo sul rapporto virtuoso che potrebbe e dovrebbe esserci fra arte e industria. E che in un Paese come il nostro dovrebbe costituire un asset strategico importantissimo…
Da sempre riesce un po’ difficile a curatori, critici dell’arte, artisti ed estetologi considerare come appropriata la contaminazione che sussiste tra l’industria di produzione di beni di consumo e i beni artistici e culturali (siano essi di natura materiale o immateriale). Aggirandosi per le gallerie, le aziende, le accademie e i musei, la sensazione che si coglie è quella di una netta polarizzazione dei punti di vista tra gli attori del sistema a vario titolo coinvolti e toccati da questo processo di contaminazione: da una parte sfiducia nei confronti del mondo della produzione di beni di consumo, quasi un terrore atavico dato dall’idea che l’economia possa sfruttare l’arte al fine di impreziosirsi e arricchirsi di quel potere simbolico che essa, sola al mondo, è in grado di sprigionare, lasciandola impoverita e imbrigliandola in un’ottica di mercato. Dall’altra parte, invece, una crescente apertura alla contaminazione di modelli e prospettive produttive, con la proliferazione di progetti d’inserimento dell’arte nelle aziende e nelle filiere di produzione, dall’organizzazione di mostre nelle fabbriche e negli studi professionali, fino all’affiancamento di artisti ad artigiani e progettisti.
Ragionando in chiave sistemica, è naturale interrogarsi sulla contaminazione della dimensione artistica con quella economica (e di consumo), domandandosi, nella fattispecie, quale ruolo possa giocare questa contaminazione nel panorama economico del nostro Paese, che si trova in difficoltà sia a emulare le economie quantitative dei Paesi emergenti, sia a riprodurre il modello meritocratico e auto-imprenditoriale tipico dell’anglosfera, sia a strutturare un welfare ordinato e monitorato come quello dell’Europa nordica.
Sempre in chiave sistemica, è utile ragionare attraverso una visione basata sulle risorse, domandandosi chi potrà mai competere con l’Italia in quanto ad artisticità, stile, design e cultura. Una quota inestimabile delle risorse artistiche e culturali del pianeta hanno sede (fisica o processuale) nello Stivale. È l’arte a tutti gli effetti il nostro “giacimento petrolifero”, e la possibilità di ripristinare i nessi che sono andati perduti tra economia e arte merita di essere annoverata come una delle principali leve dalle quali trarre slancio per rinnovare un tessuto economico indebolito dalla crisi.
La possibilità di far circolare il nostro “quoziente artistico” nei prodotti non è da escludersi, in questa chiave, anche come possibilità per rendere fruibili al massimo i nostri giacimenti artistici, stilistici, culturali e simbolici. Costituisce anzi un’azione di rilievo. Può risultare rassicurante a tal proposito sapere che c’è chi si sta interrogando su come dare luogo a contaminazioni ben riuscite tra arte e impresa, garantendo ricchezza polisemica all’operazione e proteggendo al contempo l’arte dal puro sfruttamento: perché non è in realtà la contaminazione la questione per cui schierarsi o contro cui combattere a priori, quanto invece la “qualità” di questa contaminazione, che non è verificabile in via assoluta, ma solamente specifica di progetto in progetto, di prodotto in prodotto, di caso in caso.
In questo scenario si può collocare la definizione utilizzata da Michele Tamma, docente dell’Università Ca’ Foscari, membro attivo del m.a.c.lab del Dipartimento di Management dell’ateneo veneziano: le produzioni culture-based. “Con la locuzione produzioni culture-based s’intende considerare differenti fattispecie di prodotti che ‘incorporano’, esprimono e veicolano, in varie forme, culture specifiche: prodotti culturali (in un’accezione stretta) e ‘prodotti della cultura’ (in un’accezione più ampia). Nella misura in cui questi prodotti si diffondono e si affermano grazie ad una ‘identità’, essi valorizzano, anche in senso competitivo, una cultura al di là dell’ambito in cui ha origine verso pubblici più vasti”.
Grazie al riconoscimento ontologico di questo insieme, paiono trovare adeguato spazio quelle produzioni che non considereremmo né strettamente commerciali né strettamente artistiche: le produzioni di consumo basate sulla cultura e sull’arte. Esse non rinnegano la propria natura commerciale, né intendono collocarsi nell’area dell’arte pura. Si tratta di oggetti di consumo che si rendono ambasciatori della cultura di un territorio, in cui forti connotati artistici e valori simbolici sono penetrati durante il processo di ideazione e lavorazione, coniugando in modo chiaro e non ambiguo il valore d’uso e quello estetico all’interno dello stesso prodotto.
La contaminazione tra oggetti di consumo e arte nelle filiere produttive è ormai una realtà nelle relazioni “di prodotto” tra arte ed economia: una realtà in cui non necessariamente artisti e imprenditori vedranno le proprie competenze specifiche liquefarsi e perdersi nella relazione, quanto più, forse, uscirne rafforzate.
Chiara Isadora Artico
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #21
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