Arte e innovazione dirompente
Portato in auge da un fortunato libro di Clayton Christensen, “The Innovator’s Dilemma”, il gergo dell’“innovazione dirompente” si è affermato nelle teorie di management così come nell’amministrazione pubblica. Oggi modella il discorso giornalistico, politico e aziendale. Un editoriale di Michele Dantini.
Sembra che grazie al gergo dell’“innovazione dirompente”la nostra epoca abbia ritrovato, in ambito economico, il pathos messianico che in altri tempi si riservava alla religione o all’ideologia. In The Innovator’s Dilemma ClaytonChristensen distingue due tipi di innovazione, “incrementale” e “dirompente”.
L’innovazione incrementale discende dal perfezionamento progressivo di uno stesso prodotto. La riduzione dimensionale del transistor o la progressiva sofisticazione del telefono cellulare sono innovazioni incrementali.
L’innovazione dirompente ha invece caratteri non lineari. Immette sul mercato prodotti a basso costo e li impone nei territori del Non-Consumo, conquistando nuovi mercati. È la sola, assicura Christensen, a procurare “crescita” durevole alle aziende che sappiano catturarla (o “incapsularla”) nelle proprie politiche di prodotto.
La teoria manageriale può aiutarci a comprendere la componente strategica che sta dietro al processo artistico e creativo? A mio parere sì: con cautela. Non è questa la sede per dilungarsi sul tema. Osservo però che attitudini imprenditoriali e capacità di orientamento competitivo sono da tempo requisiti importanti per un artista, tanto da potersi affiancare alle muse più tradizionali. La carriera artistica riesce o fallisce in contesti di mercato, e possiamo considerare l’arte un ambito precoce ed elettivo dell’economia capitalista. A una fase determinata della sua carriera, Andy Warhol ha manifestato con grande franchezza la propria propensione al business, stabilendo un modello oggi replicato da artisti-manager come Jeff Koons o Damien Hirst.
Come considerare, se non in termini di “innovazione dirompente”, la propensione di Warhol a produrre in serie immagini in apparenza banali e prive di mistero, vistosamente “imperfette” e a basso costo, dedicate a temi popolari e idiosincratici? E come non interpretare nello stesso senso, dal punto di vista dei processi di mercato se non delle intenzioni dell’autore, l’attuale vague dei graffiti alla Banksy?
Non si tratta dal mio punto di vista di ridurre l’attività artistica a un’attività economica, ma di imparare a riconoscere analogie tra ambiti spesso molto diversi.
Michele Dantini
editorialista e saggista
docente di storia dell’arte contemporanea università del piemonte orientale
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #22
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati