Arte, identità di genere e femminismo. Intervista con Suzanne Lacy
Nella sede milanese del Museo Pecci è aperta “Gender Agendas”, prima retrospettiva europea dell’artista americana Suzanne Lacy. Un personaggio complesso e importante, protagonista fin dagli Anni Sessanta dei movimenti artistici legati alla cultura femminista. L’abbiamo intervistata.
Los Angeles-based, protagonista fin dai primi Anni Settanta dei movimenti artistici di avanguardia che unirono la performance art all’impegno sociale e all’attivismo femminista, Suzanne Lacy (Wasco, California, 1945)si è occupata anche di teoria dell’arte. Nel 1994 ha curato Mapping The Terrain: New Genre Public Art, una raccolta di interventi di artisti, curatori, scrittori e teorici che mette a fuoco l’evoluzione del concetto di arte pubblica; dalla definizione tradizionale che la intende come intervento “decorativo” nei parchi e nelle piazze a un’idea più relazionale che vede gli artisti direttamente impegnati a coinvolgere il pubblico in azioni che affrontano tematiche attuali.
Tra le azioni corali più suggestive organizzate da Lacy, dirette soprattutto a contestare il modo in cui media e opinione pubblica rappresentano la donna, citiamo The Crystal Quilt (1985-1987) dove 430 donne ultrasessantenni del Minnesota, sedute attorno a tavoli disposti su un grande tappeto-quilt, discutono insieme l’esperienza dell’invecchiare e gli stereotipi connessi all’anzianità che impediscono di svilupparne le potenzialità sociali. O anche la più recente Between the Door and the Street (2013), che ha coinvolto 400 attiviste di New York in un lavoro di confronto e discussione durato 5 mesi e conclusosi con una performance collettiva pubblica, lungo un viale di Brooklyn.
A Milano, Lacy ha voluto ripetere la famosa performance Three Weeks in May. Nel 1977 l’artista affisse in pubblico, vicino al municipio di Los Angeles, una grande mappa della città, e per tre settimane marcò con il timbro rosso “rape” ogni luogo dove la polizia riportava uno stupro. Nel Museo Pecci l’azione del marcare i luoghi sulla mappa è stata simbolicamente ripetuta da Lacy insieme alle attiviste milanesi che si occupano di violenza contro le donne.
La performance che hai riproposto a Milano fu nel 1977 un’azione importante, la prima su grande scala a portare in pubblico la discussione sul problema della violenza contro le donne, affiancandosi alle proteste avviate dai neonati movimenti femministi. Da quale contesto artistico e sociale scaturiva questa azione?
Si tratta di pratiche che si svilupparono a partire da tre fattori. In primo luogo il movimento femminista e altri movimenti per la giustizia sociale – in materia di classe, razza, identità – crearono un contesto carico di energia e attivismo, insieme alla convinzione che il mondo potesse essere trasformato con metodi politici positivi. Usare l’arte in modo politico, per richiamare l’attenzione su temi tenuti nell’ombra come quello della violenza, era un approccio che caratterizzava una tendenza forte tra gli artisti della Southern California. Alan Sekula e Fred Lonidier si occupavano delle condizioni dei lavoratori; Ed Burreal e John Otterbridge lavoravano sulla giustizia razziale; Nancy Buchanan puntava il dito sulle responsabilità della CIA, per esempio, in Cile.
In secondo luogo, ci trovavamo nel mezzo di un processo di forte messa in discussione delle forme d’arte esistenti: dematerializzazione, performance, arte concettuale, arte negli spazi pubblici. Tutto questo contribuì fortemente alla sperimentazione artistica. In particolare la performance era una pratica importante in California: molti artisti a San Francisco e a Los Angeles proponevano nuove modalità per impiegare il corpo come soggetto artistico. Questo movimento era poi sostenuto da numerosi programmi di master, spazi gestiti da artisti e un sistema di gallerie e musei relativamente piccoli, di modo che era più facile sperimentare, facendo a meno del consenso del mercato.
Infine a Los Angeles, dove domina l’intrattenimento, il tema della cultura popolare era molto coinvolgente. Gli artisti scoprivano nuovi media e spazi per l’arte. Il video offriva ad artisti come Nam Jun Paik e Doug Davis la possibilità di sperimentare con la televisione e altre forme della cultura popolare. Quindi l’idea di fare operazioni artistiche in pubblico, anche se nuova, era comunque familiare a un piccolo gruppo di artisti d’avanguardia.
Quindi la performance si univa all’azione politica…
Sì, l’aspetto relativamente innovativo stava nel fatto di unire l’organizzazione comunitaria e l’intervento politico con l’arte della performance, e nella consapevolezza che l’arte potesse accadere all’interno di piattaforme che fossero sia estetiche sia parte della vita quotidiana (come le discussioni di gruppo su un particolare tema). Perciò il mio lavoro è stato un frutto del proprio tempo, ma anche di una comunicazione fra artisti dalle vedute affini, provenienti dai maggiori centri dell’Europa occidentale, come Londra, Roma, Berlino e Vienna.
In Italia le organizzazioni attive contro la violenza sulle donne hanno denunciato il preoccupante incremento, negli ultimi anni, dei casi di violenza domestica e di “femminicidio”, ovvero di uomini che uccidono donne per motivi legati alla loro identità di genere,mentre le leggi al riguardo sono ancora poco efficaci nel prevenire questi fenomeni e nell’assicurare protezione alle vittime. L’idea di realizzare questa performance insieme alle donne italiane nasce da una tua riflessione su questi aspetti?
Sono sicura che il curatore, Fabio Cavallucci, avesse questo in mente quando mi ha chiesto di fare una mostra. L’idea di ricreare la performance, per ripresentarla negli spazi del Museo Pecci a Milano, risponde all’intenzione di connettere quel periodo storico, gli anni Settanta, con quello attuale. La prospettiva storica è molto importante nelle lotte politiche, altrimenti si corre il rischio di reinventare in continuazione lo stesso obiettivo. Ci troviamo in un momento in cui la consapevolezza mondiale del problema della violenza contro le donne e dei suoi costi sociali diventano sempre più evidenti. Dall’India a Brooklyn, le attiviste oggi connettono i molteplici temi legati alla violenza e definiscono le possibilità di azione politica e legale.
Se la performance originale di tre settimane, tenutasi a Los Angeles nel maggio 1977, era collocabile del movimento femminista locale, l’idea di ripeterla viene invece dal fatto che nell’autunno di quello stesso anno fui invitata alla Settimana internazionale della performance, curata da Renato Barilli in occasione della fiera di Bologna. Lì appesi al muro una copia della mappa di Los Angeles, marcai da sola i luoghi degli stupri e li declamai tutti insieme. Ho pensato che rifare questa azione oggi, a Milano, nel 2014, fosse un bel modo di chiudere il cerchio.
Che significato assume per te il fatto di chiedere alle donne e alle attiviste di Milano di ri-marcare sulla mappa di Los Angeles quegli episodi di violenza?
Certamente mi preoccupa molto la situazione mondiale, che non conosce tregua nonostante la nostra consapevolezza in merito sia maggiore. Credo che l’unico modo per fermare tale violenza sia di impegnare sempre più donne e uomini nell’attivismo.
In Italia c’è un ritorno di interesse verso questo pensiero politico, così come negli Stati Uniti. La protesta delle sciarpe bianche, nonostante sembri ormai chiusa, è stata un segnale positivo. Lo sono anche le nuove leggi anti-stalking. Sembra ci siano parecchie organizzazioni per le donne e, a giudicare dal riscontro che ho avuto, c’è un interesse reale per il problema della violenza domestica.
Ma sono sicura che in Italia come altrove, durante questi quarant’anni le attiviste e le organizzazioni abbiano continuato a svolgere il proprio lavoro. Al Museo Pecci di Prato sono stata intervistata da Sara Maggi, giornalista e consulente che si occupa di violenza e traffico di esseri umani: come l’esperienza mi ha insegnato, ovunque ci sono donne che continuano a lavorare, visibili o invisibili, su questi temi. Anche se la pubblicità viene a mancare e le persone non sono così informate a riguardo, questo lavoro considerevole va avanti.
La tua attività artistica nasce e si sviluppa in stretto contatto con i movimenti femministi che negli Anni Settanta videro protagoniste importanti artiste come Judy Chicago. A Los Angeles il Woman’s Building veniva occupato nel 1973, a Roma la Casa delle Donne nasceva nel 1976. Qual è la tua opinione sullo stato del femminismo oggi?
Judy Chicago è stata per me fonte di grande ispirazione, oltre che mia insegnante. Fu proprio quando divenni membro del suo primo Feminist Studio Workshop, all’università di Fresno, che decisi di mollare psichiatria per avviarmi alla carriera artistica. Sono stata una delle prime docenti al Woman’s Building di Los Angeles, insegnavo performance art.
Oggi i media riflettono una continua lotta con il termine “femminismo”. Significa così tante cose per così tante persone ma, in generale, spesso è ancora usato in senso peggiorativo. A Milano mi è stato chiesto cosa pensavo della recente protesta online di giovani donne contro il femminismo [Women Against Feminism, n.d.R.]. Dovremmo chiederci perché un evento virtuale in cui giovani donne mostrano un cartello dove spiegano perché non sono “femministe” sia meritevole di copertura mediatica, rispetto a tante altre azioni intraprese su internet. Perché, nonostante le donne negli ultimi decenni abbiano ottenuto conquiste politiche e sociali, dal diritto di voto alla possibilità di vedere eleggere delle donne (occasionalmente) a capi di stato, alcune persone investano nello screditare un movimento che sembra separare gli obiettivi degli uomini da quelli delle donne.
Come interpreti questi segnali revisionisti?
Penso che qualsiasi movimento sia fallibile, come il momento culturale nel quale opera. Nel caso del femminismo, possiamo dire adesso, quarant’anni dopo, che indubbiamente ci siano state persone miopi. Ma certe accuse di omofobia, transfobia, odio nei confronti degli uomini e razzismo con cui veniva identificato il “movimento” sono attribuibili solo a individui e piccoli gruppi, mentre non ne costituiscono l’attitudine generale.
È importante comprendere dove e perché esiste la critica al femminismo, come opera politicamente. La parità salariale è una questione che incide sui profitti delle imprese. L’attenzione femminile alla bellezza ha prodotto affari da miliardi di dollari, dalla moda ai cosmetici alla chirurgia plastica. L’industria della pornografia è una delle più redditizie al mondo, insieme al traffico di esseri umani. Potrei andare avanti.
Negli Stati Uniti i repubblicani concentrano la maggior parte delle loro proposte di legge su tematiche connessealla gravidanza. Dal momento che l’80% dei loro eletti sono uomini bianchi, dovremmo chiederci chi traevantaggio da questa situazione e perché? Susan Faludi ha segnalato il fenomeno del “contrattacco” e io credo che in ogni epoca si attraversino periodi di rafforzamento dei diritti (come è adesso), cui seguono reazioni negative verso le “femministe” o le “femi-nazi” (per citare Rush Limbaugh).
Ogni generazione ha diritto a scegliere le proprie istanze e le vecchie attiviste devono saper ascoltare e capire il modo in cui evolvono. C’è ancora tanto da fare per istituire la parità razziale, sociale, di genere e di preferenza sessuale: dovranno pensarci i giovani. Penso quindi che la discussione sul femminismo e sulle sfide ancora da affrontare sia tutto sommato positiva. Le giovani donne stanno definendo le proprie posizioni e se la messa in discussione delle idee femministe è parte di questo processo, così sia. Ma spero siano capaci di distinguere tra una critica che costruisce sulle idee e i traguardi del passato e una critica prodotta invece dai media controllati dagli interessi delle imprese.
Parlando invece di artiste donne: come è cambiato, se è cambiato, il loro ruolo all’interno del sistema?
Penso sia cambiato molto. Il numero delle donne nel settore artistico è drammaticamente cresciuto, anche se purtroppo in relazione inversa fra studentesse di arte e addette ai lavori. In generale, ci sono meno artiste donne che artisti uomini, i prezzi delle loro opere sono più bassi, hanno meno opportunità. Ma molte cose sono cambiate da quando frequentavo la scuola di arte. A Milano ho parlato con Katarzyna Kozyra, famosa artista polacca che ha condotto una ricerca sulle donne che frequentano scuole di arte e che poi intraprendono una carriera da artista. Mi ha raccontato che molte di loro hanno chiesto di restare anonime per paura di ripercussioni sulla propria carriera nel caso in cui si dichiarino contrarie al trattamento riservato loro in quanto donne. In una situazione simile, diventa anche molto difficile per una donna schierarsi con il femminismo.
Emanuela Termine
Milano // fino al 6 gennaio 2015
Suzanne Lacy – Gender Agendas
a cura di Fabio Cavallucci
MUSEO PECCI
Ripa di Porta Ticinese 113
0574 531828
[email protected]
www.centropecci.it
MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/39887/suzanne-lacy-gender-agendas/
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