In un’intervista rilasciata alla New York Review of Books nel 1969, Stravinsky – a proposito dei Quartetti di Beethoven – afferma: “Personalmente penso […] che i quartetti siano una carta dei diritti dell’uomo, una carta sediziosa in eterno secondo il concetto platonico dell’eversività dell’arte. […] Nei quartetti è incorporato un alto concetto di libertà che comprende e nello stesso tempo va oltre ciò che intendeva lo stesso Beethoven quando scriveva che la sua musica ‘poteva aiutare l’umanità sofferente’”. La musica sta alla libertà dell’uomo come il potere alla sua schiavitù. In questo secondo caso può contribuire a rafforzare l’ideologia del potere.
Le dittature del passato hanno avuto la loro arte e i loro artisti asserviti, come anche le presunte democrazie d’oggi quando fanno del mercato un fatto sociale totale. Per questa realtà che ci ostiniamo a chiamare “contemporanea”, affinché l’arte esista occorre che muoia la sua natura eversiva. La regressione infantilistica celebrata da molte opere che troneggiano nei musei è la cartina di tornasole della propaganda estetica neoliberista. Dalla natura eversiva delle avanguardie (prime, seconde e post…) alla potenza idiota del banale in versione multiculturalista, esploso nell’ultimo quarto di secolo del Novecento, si tende l’arco storico dell’ultimo secolo.
Dopo l’incalzante yuppismo della stagione postmoderna, l’eversione è ormai solo tenue parvenza di un passato incerto per gli smemorati fan del “contemporaneo”. La vecchia caratterologia modernista che esigeva artisti decisi a tutto non regge più davanti al proliferare dei nuovi “caratteri” forgiati con le ricette del mercato. Il tratto liberatorio dell’umorismo dei dadaisti (un esempio tra altri) che educava alla rivolta, o l’arte come gesto critico affermato da Beuys, Baruchello e molti altri, sono stati sostituiti dal ghigno permanente di pupazzetti, coniglietti, bamboline e altre sciocchezze del genere che hanno colonizzato i musei d’arte contemporanea. Ma è un ghigno che arriva fino alla depressione, vive come cornice fisiognomica esteriore tipica dell’estetica multiculturalista décalé: che accada qualsiasi cosa, purché sia divertente.
Oggi tutti possono ridere di tutto. È la nuova carta universale dei diritti. E i maiali di McCarthy, i lucidi coniglietti di Koons o le creature fantasy di Mariko Mori lo sanno bene. Loro che ci guardano dall’alto della loro insignificanza, e che ci hanno preceduto nello sterminio sacrificale, interrogandoci sul nostro destino, allo stesso modo di come un tempo le sfingi interrogavano l’uomo.
Marcello Faletra
saggista e redattore di cyberzone
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #22
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