Combattere con l’obiettivo. Intervista con Nina Rosenblum
Dal D-Day alla liberazione del campo di sterminio di Dachau. Le fotografie inedite di Walter Rosenblum sono state di recente esposte a Roma dalla 10b Photography Gallery. In occasione di questo evento abbiamo intervistato Nina Rosenblum, figlia del grande fotografo e regista di successo.
La 10b Photography Gallery di Roma, guidata da Francesco Zizola – fotogiornalista internazionale e titolare della galleria – in collaborazione con la Daedalus Productions, ha organizzato la mostra They fight with cameras, a cura di Manuela Fugenzi. Un’esposizione che vuole omaggiare Walter Rosenblum (New York, 1919-2006), uno dei fotografi più decorati nella Seconda guerra mondiale e figura di riferimento del XX secolo, ricordando il suo lavoro e quello di tutti quei fotografi che decisero di combattere con la macchina fotografica, per denunciare e raccontare il dramma della guerra. Abbiamo intervistato Nina Rosenblum, figlia di Walter e accreditata regista e produttrice di documentari per il cinema e la televisione.
They Fight with Cameras: cosa significa?
They Fight with Cameras sono le parole stampate dall’esercito americano dietro a una fotografia originale che ritrae mio padre assieme ad altri membri del Detachment “P” 163rd Signal Photographic Company, tre settimane dopo lo sbarco in Normandia. Il gruppo di cinque persone era formato da due fotografi, due addetti ai video e un altro membro. La ragione che ci ha spinto a esporre queste foto, di cui alcune inedite, era omaggiare mio padre e tutti quei fotografi che hanno utilizzato le loro immagini per lottare a favore della giustizia sociale.
Com’è strutturata la mostra?
Mio marito, circa un anno fa, ha trovato nello studio di mio padre, in una busta, trentatré piccole fotografie della seconda guerra mondiale, di cui ignoravamo l’esistenza. Secondo l’esercito americano, i fotografi che venivano inviati nelle guerre per la documentazione non avevano il pieno diritto dei loro negativi. Una volta scoperte, ci siamo detti: dobbiamo fare una mostra! Mio padre fu anche un bravo operatore cinematografico. Maurizio Valdarnini, docente e direttore all’Istituto Superiore di Fotografia e Comunicazione Integrata ISFCI di Roma, dopo una ricerca sul web, trovò una targhetta, che rivestiva una pellicola, con il nome di mio padre. Sapevamo che se era arrivato a trovare questo, potevamo arrivare ai nastri da lui ripresi. Non eravamo mai stati capaci di trovare questo tipo di targhetta negli archivi cinematografici dell’esercito militare statunitense, ma grazie a internet abbiamo scoperto che alcuni archivi avevano messo in vendita i girati, per cui abbiamo trovato parecchi filmati. In mostra ci sono anche tre brevi video estratti dai girati che abbiamo trovato di quei momenti in cui è presente anche mio padre assieme ai suoi colleghi dell’unità. Inoltre, esposti anche una decina di altri oggetti tra negativi, memorabilia e immagini dei giornali dell’epoca.
Quali sono stati i punti di riferimento fotografici di tuo padre?
Mio padre incontrò uno dei suoi mentori, Paul Strand, a 17 anni e sicuramente gli cambiò la vita. E poi Lewis Hine, che gli ha trasmesso la comprensione di come la fotografia poteva cambiare il suo punto di vista e quello del mondo. Tra questi due grandi maestri, aggiungo anche mia madre, Naomi Rosenblum, che ha trasmesso a mio padre tanta forza per il suo lavoro. Quando mia madre divenne una storica della fotografia, curò molte mostre insieme a mio padre. Hanno portato la prima mostra di Lewis Hine in Cina nel 1980 e la stessa fu poi proposta alla Biennale di Venezia nel 1997.
Cosa ha rappresentato per tuo padre la fotografia? E cosa rappresenta per te la fotografia di tuo padre?
Per mio padre la fotografia ha rappresentato comprensione, connessione emotiva nei confronti degli altri, il potere delle persone e la sua personale capacità di poterle aiutare. Ciò che rappresenta la fotografia di mio padre per me: innanzitutto, lui è stato il mio primo maestro. La sua presenza mi ha profondamente influenzato; giravo con lui dall’età di cinque anni e gli sono sempre stata vicina, anche quando decideva di frequentare quartieri difficili, e nondimeno in camera oscura. Produco e giro dei documentari, e ho scelto di frequentare luoghi molto difficili, come le prigioni e luoghi oscuri dove si consuma droga. Cerco di comprendere l’umanità nei confronti di questi problemi. Andando in questi posti, cerco di capire quello che mio padre mi ha trasmesso per rivelare i retroscena di certe vite, non per trovare soluzioni, ma per raccontare.
Tuo padre, fotografo di guerra, è stato uno dei primi a documentare la liberazione del campo di sterminio di Dachau. È un lavoro molto rischioso oltre che forte emotivamente: qual è stata la sua motivazione? C’è qualcosa dei racconti di tuo padre di quel periodo che ti hanno colpita in particolare?
Mio padre fu il primo cameraman durante la liberazione del campo di sterminio di Dachau. Infatti fu lui a riprendere la fucilazione dei soldati tedeschi delle SS da parte degli americani. Un momento della sua vita che lo ha terribilmente scosso, cambiandolo per sempre. Ha percepito profondamente l’orrore della malvagità. Nonostante tutto, lui ha sempre creduto che in una buona società, in cui le persone si prendono cura l’una dell’altra. E questa fede fa parte della sua fotografia.
Quali sono le fotografie di questa mostra a cui sei più affezionata?
Sono affezionata a due fotografie in particolare. Una è la fotografia di copertina della mostra, in cui si vede un eroe del salvataggio a Omaha Beach, nel primo D-Day. L’altra è quella in cui si vedono dei soldati salvare un loro collega, durante i combattimenti, sempre del D-Day.
Sei stata definita “una delle più importanti documentariste investigative degli Stati Uniti”, e insieme a tuo marito Daniel Allentuck hai girato “Walter Rosenblum. In search of Pitt Street”, che è stato proiettato in mostra. Puoi dirci qualcosa del documentario?
Girare un film su mio padre è stata la cosa più dura per me. Altri documentari sono stati più semplici, ma in questo caso ci tenevo a fare un ottimo lavoro. Se non fosse stato un buon lavoro come avrei potuto vivere? Dovevo essere sicura che venisse come mi aspettavo. Il primo che abbiamo girato non mi piacque nel modo più assoluto, allora abbiamo buttato via tutto. Lo abbiamo rifatto da capo, ricreandolo in un nuovo modo, in modo che potesse piacere a mio padre. Che infatti lo amò. È stata questa la difficoltà, il primo spettatore da soddisfare era lui.
Quando hai capito che volevi diventare documentarista? E quali similitudini ci sono nel tuo lavoro vicino a quello di tuo padre?
Ho iniziato come pittrice e ho sempre frequentato scuole d’arte. A 27 anni ero molto insoddisfatta e non capivo il perché. Mi dicevo che dovevo trovare la forma d’arte davvero adatta per me. Per cui tornai a scuola, scegliendone una di cinematografia: avevo capito che per me era la scelta giusta. La madre di mio marito, Maureen Stapleton, è stata una nota attrice americana, come la vostra Anna Magnani. Per il percorso scolastico che avevo intrapreso, l’esigenza era quella di lavorare un anno come assistente alla regia di un film, e nel mio caso fu Reds del 1981 di Warren Beatty, in cui lei ebbe una parte. Di questo film ho seguito tutti i passi salienti di produzione e ho imparato molto. Spero che il lavoro che ho fatto nella mia vita sia all’altezza di quello di mio padre e di tutte le persone fantastiche che ho incontrato.
Terry Peterle
www.10bphotography.com
www.daedalusproductions.org
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