Conversazioni d’arte. Laura Tansini e Jannis Kounellis
Sesto appuntamento con le conversazioni fra Laura Tansini e i grandi artisti della contemporaneità. Piccolo riassunto: finora abbiamo ri-pubblicato i dialoghi con Jeff Koons, Agostino Bonalumi, Pierre Alechinsky, Mario Merz e Richard Serra. E ora Jannis Kounellis, in occasione della mostra che allestì nel 2006/2007 alla Fondazione Pomodoro di Milano.
Come hai scelto le opere [della mostra alla Fondazione Pomodoro di Milano, N.d.R.]?
Si tratta di mettere “un corpo” al pavimento e questo corpo – possono essere due, tre, ma sempre formano “un corpo”; queste presenze formano un corpo e determinano lo spazio, e poi nelle pareti si mettono dei pezzi. Non è una retrospettiva, perché da quando le metti, metti, le opere si sposano, formano un significato finale.
C’è un’opera che ritieni più significativa delle altre?
A Milano – è uno spazio ex industriale, in ricordo di questa industrializzazione che ha formato una borghesia – c’è un pianoforte che è Il Nabucco [opera di Kounellis presentata la prima volta a Roma alla Quadriennale del 1970, N.d.R.]: il Nabucco di Verdi è un’opera risorgimentale; io penso che per Milano il Nabucco, quest’aria musicale risorgimentale, faccia bene, entra in questa immagine – oleografica, se vuoi – di Milano, che è un ingranaggio; c’è anche La città che sale, e riguarda quest’aria positiva di una borghesia nascente (La città che sale è ricordata dal lavoro con le lastre di ferro arrotolate, come quelle recentemente esposte nel cortile del Museo di Carrara, posizionate in diagonale di fronte alle finestre). Malgrado oggi le opinioni siano cambiate, io penso sempre a questa ipotesi risorgimentale. Dunque la mostra di Milano in uno spazio ex industriale deve avere per forza l’anima di Milano, del lavoro, di un ingranaggio.
L’idea del Labirinto è un’idea forte per te [in mostra a Milano è allestita parte del Labirinto costruito da Kounellis nel 2002 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, N.d.R.]…
Ci sono due, tre antichità che ti hanno segnato la mente: il labirinto è una di queste, è una antichità che ha all’interno come una cosa materna, perché ha all’interno mille cose e c’è un’unica porta. Tu entri ed esci dalla stessa porta; e c’è il centro mistico, dove c’è l’uomo misterioso, l’animale che è mostruoso; però quell’animale diventa anche un uomo: il Minotauro è tutte e due. Penso che quello che è enigmatico realmente nella storia occidentale sia il labirinto, che è una indiscussa centralità, è enigmatico e anche un mistero, ti ci puoi perdere; puoi perderti, ma tutti tendono a entrare e questo è il problema, e allora c’è in gioco la morte.
Le Vele [opera presentata al Padiglione Italia della Biennale di Venezia del 1993, N.d.R.] bianche annunciano la morte del Minotauro. Se le vele fossero state nere, sarebbe morto l’eroe; e non lo so se è un bene, perché non si può sperare che la libertà cominci dopo la morte di un mito: non c’è nessuna libertà, c’è maggiore povertà ma non c’è la libertà.
Ci sono anche opere con gli animali, con le piante, con i cereali?
No, perché non ce n’è bisogno. Quello che è importante è questo frammento di Nabucco che da sopra si sente dappertutto. Non serve una cosa in più, serve solamente quella unicità; solamente le cose che penso che vanno bene, voglio che il gesto rimanga, ha una sua incisiva purezza, niente di più. Che Iddio mi aiuti, però…
Sono utilizzati anche gli spazi superiori?
Io utilizzo tutto; tutto deve essere utilizzato. L’economia dello spazio ha una sua moralità, non va sprecato, deve essere vissuto, non utilizzato ma vissuto.
Come hai progettato la mostra e scelto le opere? Hai lavorato in “pianta” e con un modello in scala dello spazio e dei lavori?
No, io non so neanche leggerla una “pianta”! È lo spazio che decide, lo spazio della Fondazione Pomodoro. È a dir poco imponente, qualcosa come 3.500 mq, però si fa la solita mostra; entrare dentro e costruire un’immagine che alla fine della costruzione è credibile, sperando che sia credibile: questo è il gioco, la scommessa. Non c’è il tempo per ricostruire, non c’è il tempo per aggiustare; non è permessa l’incertezza, non è permesso lo sbaglio.
Che significato ha per te lo spazio nel quale operi?
Lo spazio ha una sua funzione materna, fra sacro e profano, per quanto politico. E dunque entri dentro e ancori i lavori, in questa ipotesi materna – che materna non vuol dire “mammona” ma vuol dire quella cosa di appartenenza; vuol dire prima di tutto identità e vuol dire integrità e vuol dire che i discorsi non rimangono astratti ma sono ancorati in una realtà che, in quanto madre, è antica… Io vado dentro questa madre e naturalmente nelle pareti trovo i perché e la diversità: è questo che faccio.
Se hai una caduta di emotività si vede, diventa manifesto, il lavoro non è esatto. Non è un fatto geometrico: c’è un matrimonio tra te e le cose, e le cose tra loro; dunque non c’è possibilità che sia dieci centimetri a sinistra o a destra. Ma non vuol dire che c’è un progetto, vuol dire che è così, è come la strofa di una poesia che, per quanto strana, non può essere diversamente.
Dunque non è un mistero con cosa farò la mostra; il mistero rimane per me, perché non basta pensare la mostra, bisogna avere della grazia emotiva per poterla fare e non è detto che ce l’hai e dunque il risultato di una mostra si raggiunge gli ultimi cinque minuti.
Laura Tansini
Estratto da un articolo pubblicato su “ArteIn” numero 95 (2007)
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati