Conversazioni d’arte. Laura Tansini e Pierre Alechinsky
Terzo appuntamento con le conversazioni fra Laura Tansini e i più importanti artisti degli ultimi decenni. Dopo Jeff Koons e Agostino Bonalumi, è il turno di Pierre Alechinsky.
Ho incontrato il pittore, scrittore e poeta Pierre Alechinsky (Bruxelles, 1927) a Roma lo scorso dicembre [2001, N.d.R.] in occasione delle mostre che ha avuto alla Gallerie de France e alla 2RC. Quarant’anni di pittura vissuti generosamente sulla spinta del desiderio di andare sempre “più lontano della punta del pennello“; fedele allo spirito di totale libertà e di non regole – se non le proprie – che ha sostenuto e sostiene la sua passione con immutata freschezza, curiosità e intensità, alla ricerca di quello che ancora non sa, seguendo il ritmo del pensiero, della mano; assecondando la fantasia e le esigenze della composizione che non è mai programmata a priori ma “si impone” mentre la si crea.
Tu disegni molto? Disegnare ti è utile per prendere appunti di un’idea, elaborare una composizione?
Disegno abbastanza, ma dipende dai periodi; comunque si tratta sempre di disegni autonomi, non di disegni fatti in preparazione o in funzione di un dipinto. Quando incomincio un nuovo quadro, non faccio disegni preparatori e neppure è già idealmente concepito nella mia testa; ciò che mi guida a fare un nuovo quadro è il desiderio di dipingere… Si forma durante la composizione, mentre sto dipingendo, non prima.
Potremmo quindi dire che, quando inizi, non sai esattamente dove andrai…
Sarebbe troppo facile sapere dove si va. Dipingere è un’avventura, la più libera possibile, anche se ha le sue esigenze. Ci si crea le proprie leggi, talvolta molto severe, e si è il proprio giudice e arbitro.
Dipingi quasi sempre su carta, anche se poi la carta è intelaiata: come nasce questa scelta?
Dipingere su carta è un piacere che mi è venuto poco per volta. Dal 1965 – dieci anni dopo il viaggio in Giappone – praticamente non ho più dipinto direttamente sulla tela, e se l’ho fatto è stato raramente. Usando dei colori ad acqua, come i colori acrilici ai quali si aggiunge un po’ d’acqua, lavoro meglio sulla carta, carta Cina o carta Giappone; quando l’opera è terminata applico la carta sulla tela. La carta può essere considerata l’equivalente della preparazione della tela e, una volta incollata, la carta fa parte della tela.
Molto spesso lavori in orizzontale, non sul cavalletto…
È per una ragione logica e naturale. Da quando dipingo su carta lavoro in orizzontale; non devo più lottare contro la pesantezza, che per me è rappresentata dalla pittura a olio, che è spessa e dura, che cola sulla tela messa sul cavalletto…
Spesso le tue composizioni sono quasi monocrome e si direbbe ci sono colori che ami particolarmente: il blu, l’azzurro, il cobalto…
Non direi che ho dei colori preferiti… Ogni volta è un problema che dipende dalla personalità di quel quadro. L’artista si crede libero, ma è il quadro che impone la propria logica. Un colore ne porta un altro che è specifico per un certo momento, una certa situazione e una certa condizione… Ci si può illudere che quell’accostamento di colori creato per un certo quadro possa essere utilizzato per un’altra composizione, e invece non è mai così.
Nelle tue composizioni ci sono delle tematiche che hai sviluppato in una serie di opere: come nascono e come finiscono?
Mi è accaduto di avere temi che ho sviluppato. Ad esempio l’immagine del vulcano, che ho sviluppato varie volte e che mi “torna” in modo quasi automatico, ma la respingo. Mi proibisco di tornare a immagini delle quali mi sono già servito… Me lo impedisco per poter andare oltre. Per andare sempre più lontano occorre impedirsi di servirsi di ciò che già si sa: è una disciplina per evitare che l’invenzione divenga un luogo comune, un’idea già sviluppata, un’idea data, una formula di cui servirsi.
Mi vuoi spiegare il perché delle opere formate da una composizione centrale e da una serie di composizioni periferiche?
Oggi si ha l’abitudine di paragonarle alle “strip”, ma si tratta di una composizione classica: basta pensare alle “storie” delle predelle delle pale d’altare. La ragione mia era di imporre il disegno in bianco e nero confrontato con il colore sia per dare risonanza all’immagine centrale sia per difenderla, creando come un muro tutto intorno affinché gli occhi non si distraessero troppo presto verso l’esterno. In fondo il mondo esterno è talmente più importante di una pittura… È anche un modo per far vedere il quadro da lontano e da vicino…
Quando consideri un’opera terminata?
Ci sono molte ragioni… Ad esempio quando inizia a infiltrarsi un senso di noia. Sapersi fermare al momento giusto è estremamente importante. Talvolta bisogna “lasciare” come se ci fosse qualcosa di non concluso…
Quando sei andato in Giappone, a metà degli anni Cinquanta, cosa ti ha spinto? Il fascino dalla scrittura?
Devi sapere che io sono mancino, anche se scrivo con la destra, perché sono di una generazione in cui i mancini erano forzati a usare la destra; ma dipingo con la sinistra. La mia mano sinistra è rimasta libera, libera di fare quello che vuole, libera di dipingere… Posso anche scrivere al contrario, in maniera speculare, istintivamente, senza aver dovuto imparare: è una prerogativa dei mancini.
Puoi ben capire che i problemi legati alla scrittura, al “verso” della scrittura mi interessassero, e mi interessava la calligrafia cinese e giapponese, così ho deciso di andare in Giappone. In Giappone e non in Cina semplicemente perché nel 1955 non si poteva andare in Cina. In Giappone ho anche scoperto l’uso dei modi più semplici, più anti-tecnologici per dipingere: la carta, l’inchiostro, il pennello… Un invito a esprimere il massimo di cose utilizzando il minimo di mezzi. Una lezione che credo oggi sia sempre più importante.
Come passi le tue giornate di lavoro?
Sono mattiniero, per me la mattina è un momento esaltante. Non mi limito a dipingere o a disegnare: passo le giornate anche in altre attività che devo svolgere seduto, come scrivere. Per me scrivere è molto più faticoso che dipingere… La posizione fisica di stare seduti a un tavolo fa dimenticare di respirare; già questo è molto più faticoso che il gesto del pittore, che è un’attività molto più fisica e ottima per la respirazione: si sta in piedi, ci si piega, è tutta un’altra cosa; a scrivere ci si distrugge fisicamente. Inoltre bisogna seguire delle regole molto strette, fare dei controlli con il dizionario… Nella pittura invece si creano le proprie regole, che talvolta sono molto difficili da seguire, ma sono le proprie… O si può immaginare che siano le proprie…
Sei un ottimista?
Non è una domanda alla quale si può rispondere con un sì o con un no.
Volevo dire che, guardando le tue opere, si percepisce un senso di vitalità, di dinamismo che fanno pensare a un atteggiamento positivo nei confronti della vita.
Dipingere è un modo di sfuggire, impedisce di deprimersi, è di per sé terapeutico. Ad esempio, tutti pensavano che Bram van Velde fosse disperato: se lo era, lo era prima o dopo, non mentre dipingeva. Dipingere, creare, è legato a una certa gioia di vivere.
Laura Tansini
Estratto da un articolo pubblicato su “Ars”, n. 53-54 (2002)
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