Expo e Biennale di Venezia. Riusciremo mai a fare sistema?
Reduci dall'indigestione di fiere e conseguenti art week europee (per non parlare delle trasferte fra Miami e Singapore) e ormai proiettati sull'annata che vedrà giocoforza l'Italia protagonista di rassegne di richiamo globale come l'Expo di Milano e la Biennale di Venezia, non possiamo tirarci indietro rispetto alle riflessioni da fare. Gli spunti principali – più che da Londra, che si crogiola in un boom economico semplicemente inimmaginabile a sud della Manica – provengono dalla capitale francese.
Parigi sta tentando un’operazione difficilissima e coraggiosa. Magari destinata non a centrare in pieno l’obiettivo, ma parecchio interessante come tentativo in sé. La città prova in questi anni a riprendersi un primato artistico, intellettuale e culturale definitivamente perduto nel dopoguerra a vantaggio di New York e da qualche lustro anche di Londra. Mecca creativa per centocinquant’anni, Parigi aveva perduto un ruolo che, con una serie di azioni integrate, sta cercando di recuperare. Il carburante di questo motore che si rimette in moto è la moda, un settore dove le multinazionali d’oltralpe (la Kering di monsieur Pinault e la LVMH di monsieur Arnault, senza dimenticare realtà più “piccole” come Cartier) primeggiano a livello globale. La loro città d’elezione è e resta Parigi e l’insostituibile immaginario di lusso e opulenza che ancora riesce a suggerire. Per rendere coerente questo sistema, Parigi deve riacquistare una centralità creativa e artistica quantomeno a livello europeo, cercando poi di andare a fertilizzare aree vergini del Nordamerica, come la California e in particolare la città di Los Angeles, che sta subendo una sorta di piccola invasione parigina per quanto riguarda le fiere d’arte con le edizioni di Fiac e di Paris Photo. Una massiccia operazione economica di geopolitica culturale, insomma, che pone come precondizione essenziale alla sostenibilità industriale francese in fatto di fashion la presenza di un sistema urbano leader nell’abito della creatività e trendsetter a livello globale.
E come risponde la città a questo grande propellente che gli proviene dalle sue industrie? Risponde in maniera matura. Adulta. Risponde in un modo che dovrebbe servire da lezione in primis a un Paese come l’Italia, che si trova in condizioni economiche assolutamente simili a quelle francesi: disoccupazione, debito pubblico, burocrazia asfissiante, pressione fiscale insostenibile, lobby agguerrite, resistenza alle riforme e al cambiamento. Sono vulnus che i due Paesi condividono in questa fase storica. La risposta francese, almeno, è fare quadrato. Quando vi sono delle opportunità, insomma, sfruttarle a pieno. Diremmo “fare sistema”, se non fosse un’espressione talmente abusata dal risultare ormai priva di suggestione. Il sistema c’è, sia in Francia che da noi: più che farlo, occorre farlo funzionare, oliarlo, farlo girare il più precisamente e professionalmente possibile. Si chiama organizzazione: in Francia ce l’hanno, da noi è considerato quasi un vanto procedere alla giornata.
Esempio lampante di questo stato di cose lo hanno avuto gli operatori più attenti che si sono recati a Parigi durante la settimana della Fiac, alla fine dello scorso ottobre. Il sistema di mostre e aperture dei nuovi spazi a supporto della fiera è apparso imponente. Un’organizzazione che ha consentito anche quest’anno a Fiac di surclassare la rivale Frieze, la fiera di Londra che si svolge la settimana precedente. Innanzitutto c’erano aperture di nuovi spazi istituzionali di caratura internazionale, tutti insieme e tutti durante la settimana della fiera: la Monnaie di Parigi, il Museo Picasso, la Fondazione Louis Vuitton. Ma oltre agli spazi, l’organizzazione francese è scesa anche nel merito dei contenuti. La città in quei giorni suggeriva percorsi e contribuiva a costruire una narrazione trasversale di se stessa. Prescindendo anche dalla titolarità (comunale, nazionale, privata) degli spazi espositivi. Qualche esempio: al Musée d’Art Moderne c’è una grande mostra di Sonia Delaunay? Risponde il Pompidou con un focus del marito, Robert Delaunay, dando modo ai visitatori di approfondire e sentirsi avvolti da un’offerta espositiva pensata. Ancora: la Monnaie inaugura con una kermesse di Paul McCarthy? E la Fiac risponde invitando proprio il californiano (guarda un po’) a realizzare l’opera pubblica più significativa in città. Di più: Arnault inaugura la Fondazione Vuitton con un edificio mozzafiato di Frank O. Gehry? Bene, ancora il Pompidou propone in contemporanea una visitatissima rassegna sull’architetto americano. E così via. Chi lavora nei musei sa con quanto anticipo sia necessario pianificare una mostra e dunque capisce bene il tasso di sforzo organizzativo necessario ad arrivare tutti puntuali, negli stessi giorni, con contenuti complementari.
In Italia ci lamentiamo della mancanza di risorse dedicate alla cultura, ma poi disperdiamo i denari esistenti continuando a proporre banalmente eventi quando altrove hanno capito che è necessario proporre storie e percorsi. Abbiamo un’opportunità per rifarci? Sì, è prossima e si chiama Expo. C’è un sistema urbano che deve rispondere in questo senso e si chiama Milano. Ci sono soldi, c’è l’attenzione internazionale, c’è una città che ha potenzialità e deve rilanciarsi, ci sono grandi aziende private nazionali (Pirelli, Trussardi, Prada…) che hanno tutto l’interesse ad alimentare l’immaginario di una metropoli che assume un ruolo significativo sullo scacchiere internazionale. Ci vorrebbe solo un po’ di organizzazione, senza la quale l’unico storytelling possibile sarà quello, già visto, di un’occasione perduta e di risorse pubbliche dilapidate.
Massimiliano Tonelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #22
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