Giulia Roncucci: la tecnologia c’è e si vede

Il mini portfolio della rubrica fotografia su Artribune Magazine numero 21 era di Giulia Roncucci. E come sempre, per saperne di più qui avete l’intervista. E tante altre immagini.

Giulia Roncucci è nata a Milano nel 1982. Ha conseguito il  Diploma Accademico di I livello al Dipartimento di Nuove Tecnologie dell’Arte e una laurea specialistica in Pittura all’Accademia di Brera di Milano. Ha iniziato dipingendo ma ben presto è passata al video, alla fotografia, alle installazioni interattive, linguaggi che le appartenevano maggiormente.
La sua è una ricerca di matrice esistenziale: sul tempo, sulla condizione umana, in cui le diverse riflessioni prendono il più delle volte la forma visibile di un racconto del proprio vissuto e della propria storia. Nelle sue raffinate installazioni multimediali, la tecnologia è uno strumento invisibile, che trasforma elementi come l’acqua e il fumo in oggetti interattivi, offrendo allo spettatore il ruolo di attore-protagonista, in una scenografia sensibile, di un’esperienza poetica che è un’indagine del sé, una riflessione sociale, un processo alchemico.

Definisci il tuo lavoro di matrice esistenziale; a me pare di poter aggiungere che ci sia anche una forte componente autobiografica, in cui è molto forte la dimensione narrativa.
Inizialmente la componente narrativa era molto meno forte, anche se già presente: i lavori erano più concettuali. Nonostante, in nuce, fosse già presente una matrice teatrale. In un secondo momento i lavori si sono allungati orizzontalmente per permettere la narrazione, rendendola evidente.
Effettivamente più di una volta mi sono trovata a sostituire la parola “spettatore” con la parola “lettore”: preferisco decisamente quest’ultima.

Hai intitolato un tuo lavoro Maschere nude. Il pensiero a Pirandello corre immediato.
Sì. Lui ha affrontato il tema dell’identità in maniera costante. Mi pareva che per quel lavoro, con un gruppo di bambine in gita, sulle cui faccine avevo posto, con Photoshop, la mia faccina di quando avevo tre anni, truccata da pagliaccio, un titolo del genere funzionasse a meraviglia. L’identità del gruppo diventa anche la mia identità personale trasposta. In un’altra immagine simile, sulle facce delle bambine ho messo facce di bambini grottesche: mi divertiva creare questa sorta di spiazzamento.

Giulia Roncucci, Rebus 7,3,6, stampa digitale su carta opalina montata su plexiglas

Giulia Roncucci, Rebus 7,3,6, stampa digitale su carta opalina montata su plexiglas

Ancora Pirandello: Uno nessuno centomila o anche Sei personaggi in cerca d’autore… La dimensione teatrale è presente in quasi tutti i tuoi lavori. Qui emerge soprattutto la prima parte della tua formazione.
Negli anni del Dipartimento Multimediale ho studiato con Paolo Rosa, uno dei fondatori di Studio Azzurro, con Tullio Brunone, ma anche con l’antropologo Giulio Calegari, con Roberto Castello, che insegna Coreografia digitale, e con Francesca Dalla Monica, che insegna Audiovisivi lineari. Tutti loro sono stati importantissimi per la mia formazione.

Pare che le tue fotografie funzionino come un palcoscenico, in cui introduci degli attori, dei personaggi. La fotografia è alla base della tua ricerca, anche nel lavoro multimediale.
Talvolta gli scenari sono recuperati da vecchie foto, talvolta li prendo da ritagli di giornali, che poi trasformo, a volte creo dei disegni e più raramente dei piccoli plastici. Mi servo spesso di Photoshop. Lo strumento principale con cui lavoro ora è la fotografia. Forse anche perché mia madre è sempre stata appassionata di ritratti fotografici e anche mio padre amava la fotografia di viaggio e di automobili d’epoca.

La dimensione teatrale è determinante.
Le mie sono messinscena della realtà e in quanto tali hanno valore perché traspongono le diverse storie su un piano di attenzione più alto, su un palcoscenico. Una storia qualunque su un palcoscenico viene resa assoluta. La storia diventa emblema di una condizione, di un messaggio.

Giulia Roncucci, Sogno, 2011, stampa digitale

Giulia Roncucci, Sogno, 2011, stampa digitale

Nel tuo lavoro si scorgono anche parecchi legami con la storia dell’arte. Per esempio, con la Metafisica di Giorgio de Chirico.
Certo, ma non si tratta di citazioni. È qualcosa che ho studiato, digerito, elaborato e che poi tiro fuori al momento debito, in modo più o meno cosciente. Il riferimento non è solo di natura estetica, è anche una questione etica.

Tempo fa mi hai raccontato che utilizzi spesso per le tue ricerche delle fotografie che hai ereditato da un tuo vicino di casa.
Sì, infatti. I nostri vicini di casa, un pittore e sua moglie, hanno lasciato a me e a mia madre tutti gli oggetti presenti nella loro casa. C’erano moltissime cose interessanti. Fra queste, quattro ceste piene di fotografie. Alcune molto vecchie, dell’Ottocento, altre dei primi del Novecento: centocinquant’anni di immagini. Avere tra le mie mani tutte queste fotografie, in cui si intrecciavano le storie di parecchie famiglie, mi ha fatto sentire responsabile di un piccolo patrimonio, che mi sarebbe dispiaciuto disperdere. Così sin da subito le ho utilizzate per i miei lavori.

Mi pare di percepire un’atmosfera alla Boltanski: anche lui ha lavorato sui gruppi, sugli oggetti e sulla loro riproduzione fotografica. Oggetti attraverso i quali è possibile ricostruire la storia delle persone che li hanno posseduti. Fra i tuoi lavori ce n’è uno dedicato a Milano, la città dove sei nata e dove hai vissuto, una fotografia intitolata Piazza Mercanti. Vi si respira un’atmosfera particolare, in cui il tempo pare bloccato.
Sono due immagini di quella bellissima piazza che sta dietro a piazza del Duomo: una antica, in cui l’unica presenza umana è quella di un bambino, il mio vicino di casa; e una moderna, fatta da me, totalmente vuota. Io, poi, vi ho inserito i personaggi. In questo lavoro convivono diverse storie, in tal senso si crea uno spiazzamento temporale.

Giulia Roncucci - Villa Arconati Maggio 2012

Giulia Roncucci – Villa Arconati Maggio 2012

Anche in La barca si respira la stessa sensazione.
Durante un viaggio in aereo avevo fotografo dei cieli e mi piaceva utilizzarli come se fossero un oceano. Così ho creato una composizione con un gruppo di uomini di una vecchia fotografia, facente parte del mio piccolo fondo.

Anche qui mi pare di scorgere un lontano richiamo alla Zattera della Medusa di Théodore Géricault, ma anche alla famosa foto di Alfred Stieglitz The Steerage, Il ponte di terza classe. Mondi a confronto, che dialogano fra loro.
Nella foto con la barca c’è anche un senso di profonda solitudine, quella del ragazzo che si contrappone al gruppo. La foto del gruppo mi ha rievocato le traversate dei migranti italiani con le navi della speranza verso l’America, alcuni dei quali non sono mai arrivati. Il lavoro è dedicato a loro, che sono gli antenati dei migranti di oggi, e a chi ha dovuto subire una separazione.

In alcune foto utilizzi i rebus, una forma di gioco linguistico.
Li ho utilizzati molto casualmente come una forma di linguaggio concettuale.
Non sapevo che i nostri soliti vicini di casa li utilizzassero in una serie di biglietti che appendevano all’uscio di casa nostra per indicarci che avevano preparato delle cose da mangiare per noi. Quando ho fatto questo lavoro non lo sapevo, è stata mia madre a comunicarmelo in seguito.

Sembra di trovarsi di fronte a una tipica situazione junghiana di incontro fra casualità e teleologia, fra passato e futuro. Mi pare che in tutto questo la memoria tua e degli altri, che diventa la tua, assuma una valenza del tutto particolare. Anche nei tuoi lavori interattivi la valenza mnemonica è portante?
Indubbiamente i temi sono sempre gli stessi, credo sia importante a volte mettersi nelle condizioni di ascoltare la “voce degli antenati”, come facevano gli aborigeni e fanno tuttora, ad esempio, le popolazioni indigene del Messico. Portare alla luce i ricordi e i fenomeni inconsci dall’oscurità è rendere visibile ciò che non lo è. A volte vengono messe in luce figure scomode o grottesche: può non essere piacevole ma, credo, può essere un bene per la coscienza.

Giulia Roncucci, Rebus 2,9,14,2,2,8,3,10(B), 2009, stampa digitale

Giulia Roncucci, Rebus 2,9,14,2,2,8,3,10(B), 2009, stampa digitale

Per i tuoi lavori interattivi studi dei software?
Quella dei software è la parte meno interessante. Tutto nasce da un’idea. L’idea per fare un’installazione interattiva ti pone di fronte a una serie di problemi, di ostacoli. Se hai grandi competenze tecniche, li affronti in un certo modo. Invece se, come me, non le hai, devi cercare di arrangiarti trovando soluzioni più interessanti.

Insomma, di necessità virtù.
Così è stato per La falsa porta. La mano, muovendosi nell’acqua, provoca delle reazioni: svela quanto c’è dietro la porta, dei segreti che in realtà sono immagini fotografiche elaborate, alcune partono da mie fotografie, altre arrivano dal solito fondo. Non è un problema di mezzi, che si tratti di fotografia, di interazione, l’importante sono i contenuti.

Il lavoro che hai portato a Fabbrica Borroni, intitolato 44 ARCANI, è di natura politica.
Infatti. Ho scaricato 44 video da Youtube. Quanti sono gli arcani di due mazzi di tarocchi, un mazzo sono 21 più il matto e quindi arrivano 22. Sono 44 perché sono indicativamente 22 per anno: 2010 e 2011. Soggetto dei video sono, infatti, avvenimenti accaduti nel biennio 2010-2011. Ognuno di essi ha un titolo simbolico. I filmati assumono un valore metaforico. Uno per esempio è dedicato a Dick Cheney, il vice-presidente di George W. Bush. Ho scelto la sua parodia interpretata da un comico statunitense, che fa la parte del lupo cattivo travestito da nonna. La dimensione è ironica, fiabesca, ma è evidente il rimando politico dove c’è davvero poco da ridere.
Quando si entrava nella fabbrica si aveva di fronte la figura, in grande, di un militare di spalle che cammina e si camminava con lui, in un percorso costituito da tappe-eventi, condivise a livello globale. Mettendo la mano nell’acqua era come pescare una carta da un mazzo: l’evento reale diveniva veicolo di un messaggio simbolico diretto al singolo.

Giulia Roncucci, Rebus a intreccio 7,4, 2011, stampa digitale

Giulia Roncucci, Rebus a intreccio 7,4, 2011, stampa digitale

In una tua recente mostra ho visto Cool side museum, la prima parte di un grande lavoro sulle immagini della nostra contemporaneità.
Quando sono andata a Berlino ho visto come avevano museificato la parte est della città in tempi brevissimi. Museificare qualcosa significa relegarlo nella storia, in qualche cosa che è ormai passato, finito. Sono i vincitori a decidere come e cosa raccontare. Volevo fare la stessa cosa con la realtà attuale. Oggi è come se ci fosse ancora un muro invisibile: infatti, molti dei prodotti che la nostra società utilizza sono realizzati in Paesi in cui le persone vengono sfruttate, e molti sono bambini. Lo sfruttamento produce un immaginario che in realtà schiavizza anche il fruitore. E questo credo debba finire.

In Cool side museum ci sono immagini di soggetti molto diversi tra loro.
Per realizzarlo ho fatto un’ampia ricerca sull’iconografia della tortura contemporanea, sulle costrizioni della moda, sulla nudità e non solo, sulla pubblicità e sull’utilizzo di divi del cinema, dello sport e della musica come strumenti di marketing e come veicoli di cultura.

Già da qualche tempo ti stai interessando alle crudeltà che l’uomo perpetra nei confronti del suo circostante, in particolare sugli animali. Soggetti dei tuoi nuovi lavori interattivi sono gli allevamenti intensivi, una delle forme di lager del nostro tempo, che tutti i giorni sono sotto i nostri occhi, ma ai quali molti di noi non sembrano fare troppo caso.
Già in Cool Side Museum: Il furto dello specchio avevo utilizzato la figura di una divinità archetipica dell’antico Egitto, Hathor, dea della fertilità, protettrice delle donne e del  matrimonio, che ricalca le Grandi madri dell’antichità e che veniva rappresentata nelle sembianze di una giovenca. Anche Iside, sorella e moglie di Osiride, è assimilata ad Hathor. Mi appassiona molto l’esoterismo. Del resto per secoli sono state cercate e trovate particolari simbologie anche all’interno della storia dell’arte, ma questo non è per me importante, mi interessa più che altro in quanto mitologia contemporanea. Lavorando con le immagini di Internet, attingendo quindi da una dimensione mitica, non si può non considerare questo aspetto.
È un lavoro partito dall’esortazione alla liberazione degli animali dalla loro moderna schiavitù. Mi sono resa conto che per poter sensibilizzare le persone dovevo metterle nella condizione di potersi sovrapporre all’animale. L’animale è il diverso, è il debole. Avere rispetto per loro significa anche avere rispetto per gli altri uomini. Il prossimo lavoro che sto preparando prevede l’organizzazione di un canale per le liberazioni legali dagli allevamenti.
In Il furto dello specchio una cassa acustica interattiva mandava registrazioni delle voci di persone che fanno ricerche di mercato, cosa che ho fatto anche io: una forma di moderno sfruttamento. Il lavoro è costituito da una boccia d’acqua, nel momento in cui si mette la mano nell’acqua vengono visualizzati dei frame della tortura inflitta all’animale e parte, quindi, l’audio con la registrazione dei muggiti degli allevamenti intensivi. La boccia ricorda l’umor vitreo dell’occhio e volevo che i frame della tortura apparissero come flashback, come immagini depositate sul fondo immaginifico dell’umor vitreo. In questo lavoro le immagini della tortura animale dialogano con uno specchio semiargentato, di quelli che usano nei commissariati o durante le interviste per ricerche di mercato, attraverso il quale leggere un libro in cui sono centinaia di immagini, prese da Internet, e riflesse orizzontalmente e verticalmente, così che il libro si sfoglia al contrario e solo attraverso lo specchio è possibile leggerlo nel verso giusto. Al di là dello specchio è proiettata la mia immagine ribaltata, è la figura che ha perso la tridimensionalità, l’apparenza per la quale si accondiscende alla schiavitù con la quale dovremo fare i conti.

Giulia Roncucci, La Falsa Porta, 2012, videoInstallazione interattiva - photo F. Venturi

Giulia Roncucci, La Falsa Porta, 2012, videoInstallazione interattiva – photo F. Venturi

Quando hai iniziato a fare lavori di questo tipo?
Del 2008 è il primo lavoro concepito in questo modo, qui avevo utilizzato il fumo. Si intitolava Maschere nude.

Lo stesso titolo del lavoro fotografico?
Infatti è quel lavoro, diventato installazione. Mentre del 2009 è il primo lavoro fatto con l’acqua. Qui c’erano due sequenze di foto sovrapposte, una costituita dai protagonisti ritratti di spalle, l’altra, nascosta, era come una sorta di storia per immagini. Solo mia madre è ritratta di fronte, in una foto di quando era bambina. L’immagine si sovrapponeva, attraverso il gesto dello spettatore narratore, alla figura della madre del mio vicino di casa, sempre ritratta da bambina.

Negli allevamenti giri tu i filmati?
No, utilizzo solo materiali già esistenti.

Proprio come con le foto, per le quali nella maggior parte dei casi riutilizzi materiali ready made.
È molto difficile ottenere i permessi per filmare all’interno degli allevamenti intensivi, ma cercare fra i materiali già esistenti mi affascina e utilizzarlo mi sembra anche un modo per valorizzarlo. Sì, mi interessa la mediazione. Mi affascina capire cosa vedono le altre persone, è un po’ come entrare nello sguardo degli altri, ed è importante per me utilizzare immagini che sono passate attraverso gli altri, perché sono filtrate, è come avere una testimonianza.

Angela Madesani

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Angela Madesani

Angela Madesani

Storica dell’arte e curatrice indipendente, è autrice, fra le altre cose, del volume “Le icone fluttuanti. Storia del cinema d’artista e della videoarte in Italia”, di “Storia della fotografia” per i tipi di Bruno Mondadori e di “Le intelligenze dell’arte”…

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