I due piani della creazione. Conversazione con Maria Federica Maestri su Natura Dèi Teatri
A Parma dal 5 al 14 dicembre si svolge “I Due Piani”, 19esima edizione di Natura Dèi Teatri, festival diretto e organizzato da Lenz Rifrazioni. Si conclude così, dopo “Ovulo” e “Glorioso”, il ciclo triennale dedicato a Gilles Deleuze. Maria Federica Maestri, direttrice artistica della rassegna, spiega il senso di isolare questo nodo deleuziano in rapporto alla creazione contemporanea.
Partiamo dal vostro rapporto con Gilles Deleuze.
Quando tre anni fa abbiamo pensato di dare una nuova identità triennale al festival, abbiamo individuato questi campi d’espansione concettuali che traggono ispirazione dagli scritti di Deleuze. Non abbiamo l’arroganza intellettuale né la necessaria densità temporale per realizzare un progetto deleuziano – e Natura Dèi Teatri non è un festival di filosofia – ma sicuramente queste diffusioni dal suo pensiero ci permettono di misurare con dispositivi più adeguati la lingua performativa contemporanea. L’arte del presente si definisce seguendo trame complesse e in particolare tracciando la questione delle questioni: quale domanda pre-dispone l’artista che agisce nel proprio spazio-tempo?
Come ciò si è concretizzato in Natura Dèi Teatri?
Il progetto triennale del festival individuava tre nodi concettuali concatenati, come direbbe Deleuze, per desiderio più che per connessioni logiche. Ovulo partiva dall’idea di definire una lingua fertile. Di qui l’attenzione posta sui processi creativi originati da artisti radicali provenienti da diverse discipline artistiche, accomunate da un certo massimalismo creativo.
L’edizione del Glorioso poneva al centro dell’indagine un nucleo tematico contraddittorio rispetto al presente, che quasi nulla ha di glorioso e che fa, semmai, dell’inglorioso la sua matrice operativa. Un tempo alla ricerca non della gloria e dell’eroico, ma della fragilità, della debolezza e del vile. Ispirati dalla lingua-respiro di Deleuze, secondo la lezione artaudiana, volevamo definire un campo etico, piuttosto che un glorioso epico o religioso.
Con I due piani, infine,l’intenzione apparente è quella di voler denudare la lingua, di portarla a “temperatura fredda”, analitica, di enunciarla come pura struttura. Ma è un’intenzione solo apparente. Citando Deleuze: “Perché accada qualsiasi evento c’è bisogno di una differenza di potenziale e ci vogliono due livelli, bisogna essere in due, allora accade qualcosa. Un desiderio è costruire. Tutti passiamo il nostro tempo a costruire. Per me quando qualcuno dice ‘desidero la tal cosa’ significa che sta costruendo un concatenamento. Il desiderio non è nient’altro”. Solo se ci sono due piani, due livelli differenti può nascere la tensione che permette ai desideri di concatenarsi. Ed è proprio in questa pressione costitutiva, stratificata e multipla, che la lingua contemporanea esercita il suo peso estetico.
Natura Dèi Teatri è una zona di trascinamento, in cui gravitano artisti, spesso molto lontani dalla lingua performativa di Lenz, ma affini per atteggiamento etico, per meccanica morale, per il grado di inquietudine che hanno nei confronti del proprio lavoro. Confermiamo la nostra vocazione di curatela non scindibile dalla pratica artistica: una funzione intellettuale che gli artisti tendono spesso a obliare, o meglio a delegare ad altri. Curare significa guardare fuori da sé, non chiudersi nel proprio atto creativo, uscire dalla propria isola linguistica, desiderare essere in due.
Lenz Rifrazioni è presente al festival con tre opere. Si parte con il Re Lear verdiano.
Re Lear è l’opera mancata che incarna perfettamente l’idea deleuziana di desiderio. Verdi ha desiderato per tutta la vita comporre quest’opera, ma la tensione si risolve nell’epifania di uno spettro. Il libretto c’è, ma la musica è assente e sul Lear verdiano incombe il fantasma di Shakespeare e della sua opera grandiosa.
La dimensione straordinaria di questo lavoro, che presentiamo al festival in forma di studio, risiede nel tentativo di ricostruire l’opera a partire da fondamenta immateriali, invisibili, di un desiderio di cui rimangono però frammenti concreti in diverse opere di Verdi. Restituire, con la nuova scrittura musicale di Robin Rimbaud aka Scanner, un’identità scenica a qualcosa di impalpabile: “Aria sonora”, come definì la musica Ferruccio Busoni. Dona corpo al fantasma il performer: due attrici in scena in funzione di Fool/Mica e Cordelia/Delia, un attore Lear in video, due baritoni in funzione di doppio Lear in scena, una soprano e una mezzosoprano Nerilla, Rosane/Delia. Il Fool, per tradizione l’unico a poter dire la verità al Re, è interpretato dalla nostra attrice sensibile Barbara Voghera, che avendo incorporato altre figure di Matto, ad esempio Clarín per La Vita è Sogno o il Fool per Hamlet arriva, in questo Lear, a una sua compiutezza. Cordelia è interpretata da Valentina Barbarini, già eroina abbandonata nei nostri ultimi lavori che, come in Dido o in Aeneis, ha attraversato il martirio di un padre che non la comprende e la rifiuta.
Proseguite l’attraversamento manzoniano con Adelchi.
L’Adelchi è il secondo lavoro legato al nostro progetto biennale dedicato a Manzoni. È il lato oscuro de I Promessi Sposi: una tragedia-blind spot, un’area cieca, una zona di non visione a luminosità intermittente. In questa macchia scura, a tratti illuminata dalla presenza di Dio, si compie il comune destino luttuoso dei due fratelli, Ermengarda e Adelchi. Questi due piani si rispecchiano nel buio/luce interiore dell’interprete, Carlotta Spaggiari (Ermengarda) attrice con sindrome dello spettro autistico, e coincidono con la sua più intima natura: duplice nel suo assoluto desiderio di presenza e bisogno di ritiro, nell’ipersensibilità emotiva dispiegata in silenzio espressivo, nella straordinaria densità artistica silenziata dalla fobia comunicativa. La sua duplicità assume nella creazione scenica forme misteriose; scardinando i processi logici e analogici, le prevedibilità comportamentali, ci avvicina al sublime: forza distruttrice e rigeneratrice dell’atto performativo.
Infine Hyperion/Diotima: il ritorno a Hölderlin.
Lavorare, come abbiamo fatto nel passato, per quattro anni su questo autore romantico tedesco fondamentale, ma liminare rispetto a Goethe o Kleist, è stata un’esperienza profonda e forse unica in Italia. Abbiamo lasciato che i suoi scritti tornassero negli anni a contaminare altri materiali in un dialogo continuo e vivificante. Al centro di questa performance, ci sono alcuni frammenti tratti dall’Hyperion, sua opera epistolare giovanile, tradotta in puro atto vocale. L’attrice-icona di Lenz,Valentina Barbarini, incarnerà, in modo indifferenziato, nel suo corpo vocale Hyperion e Diotima. In dialogo dinamico live con la performer sarà Paul Wirkus, raffinatissimo musicista elettroacustico di origine polacca, più volte coinvolto nei progetti artistici del festival.
C’è un ‘altro piano del festival, quello dell’identità altrui, convocata per desiderio a costruire le trame di questa edizione…
Siamo partiti da Maguy Marin: insieme a Pina Bausch, ha sicuramente segnato una svolta nella danza europea. Questa chiamata testimonia il bisogno di confrontarsi con i grandi maestri, di intercettare il loro sguardo estetico, la loro tecnica compositiva. Singspieleè un lavoro sull’icona negata che raccorda e sintetizza in maniera sorprendente i due piani: la diserzione dal segno coreografico (il piano assente) e l’atto performativo trattenuto (le immagini fotografiche che prendono vita per alcuni istanti) de-significato dall’icona, depauperato dell’identità. Il segno coreografico lo si scorge in una sorta di residuo minimo-monumentale.
C’è poi il ritorno del giovane danzatore e coreografo belga Pieter Ampe, presente con So You Can Feel, un solo spezzato in due. All’interno di un unico corpo agiscono due lingue che si scontrano con una brutalità e un’esasperazione tipiche dell’area artistica da cui Pieter proviene, senza il ricorso a quella teatralità semplificata che caratterizza molte esperienze della danza contemporanea nordeuropea.
E L’Italia?
Alessandro Berti è l’unico artista italiano invitato al festival. È una presenza dall’identità molto forte, una autore lontano dai “commerci” del ristretto mercato teatrale nazionale, e che sentiamo affine per molte ragioni. Maestro Eckhart, lavoro ispirato alle scritture del mistico e teologo medievale tedesco, testimonia la crisi della rappresentazione. Esiste la possibilità di una rappresentazione sacra o è l’atto spirituale – la visione di Dio – è negazione in se stesso della sfera rappresentativa? In scena la via dell’esperienza mistica della conoscenza di Dio si incorpora in un sacerdote o in un attore? E Berti come disinnesca o esalta questo conflitto? Nel suo lavoro i due piani sono contigui e lo spettatore è chiamato a vedere, ascoltare, a condividere fede o rinuncia.
Il lavoro di Berti, insieme a Corpo Sacro di Andrea Azzali, sono gli unici due lavori che verranno presentati in un luogo diverso dal Lenz Teatro, lo spazio ex-industriale che ospita in genere le produzioni e le ospitalità del festival: si tratta della Chiesa di Santa Maria del Quartiere, un edificio situato nel centro storico di Parma, ancora destinato alle funzioni liturgiche, ma di proprietà dell’Azienda Sanitaria Locale di Parma. Il rapporto con l’indagine critica è sempre stato un elemento importante della nostra ricerca e anche quest’anno il festival non trascura il piano della riflessione teorica, e lo fa con il seminario Magnitudini e il Dialogo intorno a Re Lear curati da Enrico Pitozzi. Un’interazione concreta tra gli approfonditi studi di Pitozzi sulla lingua tecnologica nella creazione contemporanea – indagata nel seminario – e il nostro percorso compositivo con Robin Rimbaud/Scanner sul Re Lear verdiano.
Quale chiusura e quale rilancio per Natura Dèi Teatri?
Gli sloveni Via Negativa, una piattaforma di performer che indagano programmaticamente i confini della performance, tornano al festival con On The Right Track: un lavoro graffiante e ironico, a tratti sorprendentemente diverso dai loro precedenti spettacoli. L’ultima ospitalità è dedicata al giovanissimo performer inglese Tim Spooner, che trasforma la miniatura in monumento e che con The Telescope presenta l’invisibile tramutato in accadimento. Alla luce della compresenza di opere dense e di autori complessi e maturi, ci sembrava interessante chiudere il festival con queste due esperienze che tendono a vaporizzare il segno teatrale. Nello spazio tra i due piani (uno solido, quasi ferreo, l’altro aereo, polverizzato) oscillano le stesse pulsioni avvocate, chiamate a sé da un unico morale desiderante e desiderato.
Adele Cacciagrano
http://lenzrifrazioni.it/natura-dei-teatri/2014-2
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