Inpratica. Retorica della ripartenza e tempo nuovo (II)
Il tentativo, in questa rubrica, è ancora e sempre quello di costruire il “fuori” rispetto a questo “dentro” così asfissiante e noioso che è il sistema dell’arte e – in generale – della cultura contemporanea. E questa volta in soccorso viene addirittura Benedetto Croce con l’Ariosto…
The future is already here –
it’s just not very evenly distributed.
William Gibson
Il tentativo è ancora e sempre quello di costruire il “fuori” rispetto a questo “dentro” così asfissiante e noioso che è il sistema dell’arte e – in generale – della cultura contemporanea.
Le sedi storiche, tradizionali del dibattito e del discorso pubblico sono compromesse, erose: i quotidiani non sono più da tempo il luogo in cui emergono idee nuove, conflittuali, critiche. Confrontarsi con le piattaforme digitali, neanche più tanto nuove, è l’unico modo sensato intanto per intercettare e stimolare un pubblico vasto, che avverte le nostre stesse esigenze ed esprime oscuramente le nostre medesime istanze.
Ancora e sempre, il compito è chiarire e non confondere – attraverso la critica culturale, l’analisi e l’indagine delle trasformazioni che riguardano la realtà sociale nel suo complesso (e quindi anche i suoi ‘riflessi’ culturali).
Di fronte ci troviamo due ordini principali di problemi (l’uno conseguenza diretta dell’altro):
1. l’autoreferenzialità – intesa come distacco schizofrenico dell’arte e della cultura dalla realtà (è a questo, in definitiva, che rimanda l’espressione “sistema”);
2. l’imbarbarimento culturale: l’incapacità mentale, sempre più diffusa, a concentrarsi su un problema, su un fenomeno, a confrontare i diversi punti di vista su di esso – ad ammettere intanto che esistano diversi punti di vista, che essi possano esistere – e a discuterli a partire da una propria, formata, motivata, elaborata posizione.
La disabitudine profonda, e superficiale, alla complessità.
L’ostilità feroce alla possibilità di lasciarsi trasformare dagli oggetti culturali e ancor più dalle idee – che cosa di maggiormente ineffabile, inafferrabile eppure potente? –, di lasciarsi cambiare internamente; alla possibilità che la nostra identità personale, e persino quella collettiva, non siano monolitiche, date una volta per tutte e immobili, ma soggette a continua mutazione.
Che anzi l’identità sia questa mutazione. Questo movimento.
Un’idea percepita assurdamente come terrificante a livello diffuso. L’Italia è questo, ma non è questo.
(A seconda, ancora una volta, della prospettiva che si adotta.)
***
Come possono, davvero, la cultura, la critica, la critica culturale intervenire nel tessuto della realtà?
Possono, davvero, la cultura, la critica, la critica culturale intervenire nel tessuto della realtà?
La risposta è sì – e non si basa solo e soltanto su un atto di fede. Possono nella misura in cui abiurano a loro volta allo schema di riferimento imposto e accettato nel corso dell’ultimo trentennio. Il framework concettuale e ideologico che ha orientato scelte, paradigmi culturali, comportamenti, intere architetture intellettuali: lo schema in base al quale, cioè, la cultura postmoderna realizzava di non potere in nessun modo modificare il mondo, in nessuna parte, ma accettava gioiosamente di rimanere confinata nel suo lussuoso recinto, e assumeva (autoconvincendosi di questo) che il recinto fosse lì da sempre.
Che fosse molto sofisticato averlo riconosciuto, e ancora più sofisticato, e meritevole di premi, fare di questo riconoscimento il proprio tema.
Ecco, ora ci troviamo, se vogliamo, nella situazione diametralmente opposto: fare del disconoscimento il nostro tema culturale centrale. Operare una sorta di addestramento negativo collettivo, orientato a disimparare questo codice e questi dogmi.
La critica è sempre e comunque volta a riconnettere, ricongiungere, ricucire cultura e tessuto della realtà.
“Se l’Ariosto fosse stato filosofo, o poeta filosofo, avrebbe sciolto un inno all’Armonia, come non pochi se ne posseggono nella storia della letteratura, cantando quell’alta Idea che gli rendeva comprensibile la discorse concordia delle cose e, appagandogli l’intelletto, infondeva pace e gioia all’animo. Ma l’Ariosto era l’opposto del filosofo, e certo, se potesse leggere ciò che andiamo investigando e scoprendo in lui, stupirebbe, e poi sorriderebbe, e ci regalerebbe a comento qualche bonaria celia. Il suo amore per l’Armonia non passava attraverso un concetto, non era amore pel concetto e per l’intelligenza, cioè per cose rispondenti a un bisogno che egli non provava: ma era un amore per l’Armonia direttamente e ingenuamente vissuta, per l’Armonia sensibile: un’Armonia che non sorgeva, dunque, per un disumanamento e abbandono di tutti i sentimenti particolari e un salire religioso al mondo delle idee, ma anzi come sentimento tra i sentimenti, sentimento dominante che circonfondeva tutti gli altri e li componeva tra loro” (Benedetto Croce, Ariosto, 1917).
Christian Caliandro
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