Inpratica. Retorica della ripartenza e tempo nuovo (III). L’identità culturale
Parliamo di identità culturale. Ma cosa significa esattamente? Come si forma, e qual è la nostra versione italica? Di certo non è qualcosa di fisso, determinato, monolitico, ma qualcosa che vive nella trasformazione. Al centro di questo processo, il trauma della crisi. Prosegue la riflessione di Christian Caliandro per la rubrica Inpratica.
Quale futuro per l’Italia? Per l’Italia nessuno,
perché un Paese che ignora il proprio ieri non può avere
un domani. Per gli italiani, invece, ne vedo uno brillantissimo.
Indro Montanelli
Un ragazzino ciccione, in pantaloncini e casco dorato, che gioca a football con un suo amico più grande sul prato del parco. Il sole si riflette sul casco. Perché è una visione straniera, aliena qui? Perché il football non è praticato nelle scuole. Bambini e adolescenti italiani giocano a calcio; bambini e adolescenti americani giocano a football. È un fatto di educazione e di formazione: prima ancora, di framework. Se il frame, la cornice educativa è una e una soltanto, come fanno a nascere idee realmente nuove, che vengano dall’esterno e portino all’esterno del recinto?
La costruzione di uno sguardo è la pratica, pressoché quotidiana, che impegna durante gli anni Trenta molti dei giovani scrittori e intellettuali che saranno protagonisti nella stagione dell’immediato dopoguerra italiano. Questa fase di elaborazione creativa è stata a lungo rimossa, ma è importantissima per comprendere l’evoluzione dell’immaginario collettivo italiano tra fine del regime e inizio di una nuova storia. Vasco Pratolini, Elio Vittorini e Cesare Pavese (oltre a molti altri scrittori, artisti e registi) si formano lungo il decennio nell’attività sulle riviste, ricercando un’idea di realismo tra recupero del verismo (Verga), “Strapaese” e i modelli nordamericani, oggetto di costante aggiornamento e di traduzione: “Nei nostri sforzi per comprendere e per vivere ci sorressero voci straniere; ciascuno di noi frequentò ed amore di amore la letteratura di un popolo, di una società lontana, e ne parlò, ne tradusse, se ne fece una patria ideale… Naturalmente i fascisti non potevano ammettere che noi cercassimo in America, in Russia, in Cina e chissà dove, un calore umano che l’Italia ufficiale non ci dava. Meno ancora che cercassimo semplicemente noi stessi” (Cesare Pavese, “L’Unità”, 20 maggio 1945, pubbl. anche in La letteratura americana e altri saggi, Einaudi 1953, pp. 17-19).
Come ha scritto Alberto Asor Rosa: “C’era, in questa apertura, un duplice movimento, apparentemente contraddittorio, in realtà convergente. Da una parte, un’esperienza di svecchiamento culturale, che inseguiva fuori confine le suggestioni e gli stimoli, che il fascismo negava. (…) Dall’altra, però, nei paesi altrui, limpidamente illustrati da letterature attente al vero e al particolare, i giovani intellettuali andavano scoprendo le immagini di una realtà che avrebbe potuto essere la loro, quella dei loro paesi e delle loro città…”.
Macerie. In questo senso, la riscoperta degli anni Cinquanta italiani può essere un utile e valido supporto culturale e mentale. Per comprendere come ciò che prima era nascosto, sotterraneo e invisibile viene investito dalla luce della narrazione e dell’invenzione artistica: “L’originalità di Pasolini non si fermava al tratto plastico: la sua fu una singolare esperienza linguistica e sociale, il cui significato doveva risultare sulle pagine di Ragazzi di vita e sui fotogrammi di Accattone, in una continuità sorprendente fra scrittura letteraria e scrittura cinematografica. Anzitutto, la ‘scoperta di un mondo’; quindi la sua autenticazione attraverso uno stile che ne rielaborasse la logica e le emozioni. La scoperta delle periferie urbane era stata fino ad allora essenzialmente visiva: penso ai gasometri, al Portonaccio dipinto da Lorenzo Vespignani. Pasolini istituì un’officina linguistica su quei dati figurativi. Il gergo romanesco era di per sé un non valore, dal punto di vista dei valori linguistici ed espressivi. Pasolini volle conquistare quel non valore al valore estetico” (Enzo Siciliano, Scoperta di Roma, in Vita di Pasolini, Mondadori 2005, p. 198).
Il nucleo: l’identità. O meglio, il processo di costruzione dell’identità, del singolo e di una comunità. L’identità non come qualcosa di fisso, di determinato, di monolitico, ma qualcosa che vive della e nella trasformazione. Al centro di questo processo, il trauma della crisi.
L’identità culturale italiana fino a un certo punto (e dov’è questo punto? Come si stabilisce e come si riconosce? Che accade in quel punto, che cosa precisamente segnala quel punto?) si fonda sulla piccolezza, sulla miseria, sulla sconfitta, sulla povertà – rivestite di strati e strati di magnificenza, di gloria, di sontuosa decorazione (e buone dosi di retorica). I dolci, gli edifici, i testi, le opere d’arte visiva e letteraria. L’elaborazione della sconfitta, e della perdita. Della civiltà e della cultura pre-bellica. La sconfitta della e nella Seconda Guerra Mondiale, questa strana morbosa sconfitta-non sconfitta, viene elaborata principalmente attraverso la riconfigurazione di un’industria materiale e immateriale, economica e culturale, che viene dotata di alcune caratteristiche fondamentali: è povera, essenziale, ingegnosa.
Christian Caliandro
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