…io penso sempre di essere ancora un ragazzino di tredici anni,
sai, che non sa esattamente come diventare adulto,
e faccio finta di vivere la mia vita prendendo appunti
per quando, ecco, dovrà viverla davvero.
Come se fosse una prova in costume per una recita di bambini.
Jesse in Before Sunrise (Richard Linklater, 1995)
Qui ci sono schemi di riferimento, modi di vita, sistemi di valori in conflitto.
Siamo arrivati incredibilmente, e molto naturalmente, al punto che avere un lavoro normale è per intere generazioni (ripeto: per intere generazioni) un sogno irrealizzabile, e al tempo stesso un odioso privilegio – di chi ne dispone. Questo aspetto fondamentale ha alterato, e sta ancora alterando, la percezione del tempo, sia quello storico che quello della propria esistenza, la percezione della propria società all’interno di questo tempo e infine la percezione di se stessi.
Non vi siete accorti – ma certo, che ve ne siete accorti… – di quanto in profondità i trentenni abbiano introiettato l’umiliazione collettiva, l’espulsione dai diritti elementari e l’ingresso in una dimensione di esistenza oltre la precarietà, sostanziata dell’incertezza totale sui mezzi di sussistenza e gli obiettivi a medio-lungo termine da raggiungere? Siamo sequestrati, e ci siamo lentamente abituati ad esserlo.
Ora, occorre – faticosamente, dolorosamente, traumaticamente – disabituarci.
Già è difficile spiegare ai nostri nonni e perfino ai nostri genitori il vero senso di questa strana parola, “precari” (con tutto ciò che comporta, in termini di condizioni e di conseguenze pratiche, esistenziali) e associare ad essa un concetto identificabile: perché essi tendono, nonostante tutti gli sforzi, a immaginare sempre e comunque uno strano incrocio tra alieni e barbari vestiti di stracci. È uno sforzo enorme dimostrare che si tratta proprio dei loro figli e dei loro nipoti, che li conoscono benissimo. (Ed è anche peggio di così: i nostri nonni e genitori ci vogliono propinare giustamente come ricetta gli strumenti che usavano le loro generazioni, gli schemi obsoleti…)
La precarizzazione è nient’altro che la compressione dei diritti, sostituita con l’insicurezza e con l’assoluta mancanza di correlazione tra merito e riconoscimento, tra risultati e condizione personale. In ogni campo della vita economica e produttiva dell’Italia. Precario, letteralmente, è colui che è costretto a supplicare, a pregare per ottenere quello che sarebbe suo di diritto. La precarizzazione è una visione del mondo, che investe ogni ambito della vita quotidiana degli individui: “La precarizzazione del lavoro tramite l’istituzionalizzazione dei contratti temporanei è una trasformazione storica che ha gravi ripercussioni, poiché la deregolamentazione legale mina la fiducia sociale. (…) La fiducia è possibile solo in un mondo familiare; ha bisogno del terreno affidabile della storia. Si tende a presumere che le persone e le circostanze che si sono rivelate in passato degne di fiducia continuino a esserlo, così come coloro che non si sono rivelati degni di fiducia continueranno probabilmente a non esserlo” (Paul Connerton, Come la modernità dimentica, Einaudi 2010, pp. 92-93).
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I trentenni anche fisicamente sono stati agganciati a una sorta di impotenza indotta: convinti a coltivare desideri piccoli – e dunque a voler essere persone piccole. Micro-ambizioni: il contrattino, il lavoretto, la casetta, la residenzina. Che si traducono molto spontaneamente ne: l’articoletto, il libricino, il filmetto, l’operina, la mostrina. Il compitino – per cui prendere il bel voto, e passare a incassare il premiuccio.
Siamo stati indotti pervicacemente, e con una violenza psichica, sociale e culturale davvero ammirevole nella sua efficacia, non solo a non ribellarci ma quasi a scusarci della nostra stessa esistenza. Guardate come andiamo in giro vestiti, almeno per la maggior parte: tristi pagliaccetti con pantaloni strettissimi e cortissimi; con maglioni non più grunge (ah, il grunge, aspirazione dimenticata e Seattle dell’anima!) e non ancora pienamente dignitosi (sempre troppo stretti); macilenti ma abbastanza in salute (estenuazione non decadente: qualcosa di beat, ma pienamente sedato); con barbe non molto convinte di sé, o esagerate, e pallori che sanno troppo di artefatto. Dice: ma è hipster. No: è, con ogni probabilità, un look da sconfitti.
“Ma il mio tema principale è rimasto. Un tempo era la ricerca della realtà, che avevo formulato come: ‘cosa è reale? Cosa non lo è?’ Ma credo che invece la domanda ‘cosa è umano? Cosa non lo è?’ sia più vitale, e che fosse presente già allora, sotto l’altra. Dopotutto, la parte reale che ci consente di fare qualcosa della nostra vita di cui possiamo fare tesoro è proprio la realtà stessa degli altri umani. Definire cosa è reale equivale a definire cosa è umano, se si è interessati agli umani. Chi non prova interesse per loro è un soggetto schizoide, simile a Pris e, per come la vedo io, un androide: quindi non umano, e quindi non reale. Se vi riconoscete in questa tipologia, dovrete risolvere il vostro problema da soli, senza il mio aiuto, perché non provo una grande simpatia per voi. Questo perché, in verità, ciò che manca in voi – androidi – è la simpatia, una forma di simpatia essenziale, intesa come sentimento empatico verso la vita altrui, e se non l’avete per noi, non riusciamo a immaginarci come noi potremmo averne nei vostri confronti. È possibile avere questa empatia solo se reciproca. Potete entrare nel nostro gruppo in qualsiasi momento; tutto ciò che dovete fare è provare interesse per noi, non per il modo in cui potremmo riuscirvi utili, ma così come siamo: stupidi e inutili, inefficienti e contradditori, sbagliati e sciocchi e pigri e creduloni, e così via – tutti elementi che bloccano il nostro potenziale valore di utilizzo in quanto oggetti. Che ostacolano la reificazione che operereste su di noi” (Philip K. Dick, L’evoluzione di un amore vitale, ne L’androide Abramo Lincoln–We Can Build You, 1972, Fanucci Editore 2007, p. 263).
Christian Caliandro
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