Italiani a New York. Intervista con Maria Domenica Rapicavoli
Un’intervista a Maria Domenica Rapicavoli, artista italiana che vive a New York da oltre due anni. Negli Stati Uniti porta, con i suoi progetti, pezzi del proprio Paese d’origine, lavorando sulle dinamiche di potere del Belpaese e sulla sua situazione critica e collusa. Ma non mancano riflessioni sull’anima neo colonizzatrice americana.
Maria Domenica Rapicavoli, nata a Catania, si è specializzata al Fine Art Goldsmiths College University di Londra ed è stata scelta nel 2011 per il Whitney Independent Study Program (ISP) di New York. Nella Grande Mela ha recentemente partecipato alla mostra collettiva In Plain Sight da Smack Mellon e all’International Studio & Curatorial Program (ISCP), per cui ha realizzato la sua prima personale americana intitolata A Cielo Aperto. Il progetto è incentrato sull’occupazione militare dei cieli siciliani e sulla costruzione del MUOS a Niscemi.
Il tuo lavoro porta la tua terra d’origine in giro per il mondo, ma non è un’immagine da copertina: le opere indagano i meccanismi del sistema economico vigente, le rotte di migrazione, il colonialismo americano in Sicilia e la centralità del Mediterraneo nelle moderne guerre di potere internazionali. Se è vero che l’arte non è direttamente uno strumento politico è anche vero che la riflessione critica e analitica sull’esistente porta a una sua problematizzazione necessaria. Come hanno preso in America il tuo lavoro sul MUOS di Niscemi?
Direi con stupore. Gli americani sanno poco di come vengono spesi i soldi delle loro tasse. Quasi niente va al sistema pubblico, quasi tutto viene speso per la Difesa. Chi ha visto il mio lavoro non aveva idea che ci fossero basi militari in Sicilia e non avevano mai sentito parlare del MUOS (Mobile User Objective System). La Sicilia era fino a quel momento per loro solo pizza, pasta, sole, cannoli e mafia (quella dei film). L’essere stata selezionata per il solo show che ogni anno l’ISCP organizza nella galleria della residenza dell’East Williamsburg a Brooklyn è stato per me un onore. Il mio progetto, nonostante avesse una chiara connotazione critica nei confronti del sistema militare americano, è stato scelto fra le proposte di tutti gli artisti in residenza in quel periodo, e poterlo mostrare in territorio americano, in un momento di tensione bellica come questo, è stata per me molto importante.
Raccontaci questa esperienza…
Sin dal primo giorno di residenza ho lavorato alla mostra. Non capita spesso di avere a disposizione lo spazio espositivo per più di un mese prima dell’inaugurazione. Questo mi ha permesso di realizzare un lavoro site specific, che si adattava perfettamente allo spazio della galleria. La mia residenza presso l’ISCP è stata in parte sponsorizzata da nctm, lo Studio Legale Associato di Milano che mi ha assegnato il premio Artists in residence, programma curato da Gabi Scardi dedicato al sostegno della mobilità internazionale degli artisti italiani.
Durante i sei mesi all’ISCP ho avuto anche il piacere di conoscere diversi artisti italiani che erano come me in residenza: Andrea Mastrovito, Alice Schivardi, Gabriele Picco, Sven Sachsalber e Giorgio Andreotta Calò.
Qual è la tua posizione riguardo la politica di militarizzazione americana in Italia?
La mia posizione è critica nei confronti di un sistema politico ed economico che si fa forza sulla base di accordi internazionali che determinano e controllano le nostre vite. La mia non è una critica nei confronti degli Stati Uniti, (anche se ovviamente mi oppongo fortemente alla loro politica guerrafondaia) ma lo è in maniera più ampia nei confronti degli scambi, convenzioni e accordi segreti che esistono fra Italia e Stati Uniti e che ad esempio permettono che si costruisca una stazione di onde elettromagnetiche ad alta frequenza all’interno di una riserva naturale. Ho portato la Sicilia militarizzata negli Stati Uniti perché volevo che se ne parlasse.
La società americana pare ossessionata dal controllo e dalla guerra preventiva. È davvero così?
Assolutamente. Io la chiamerei strategia propagandistica che serve a celare i reali intenti imperialistici che da sempre caratterizzano la politica internazionale americana.
Durante la tua permanenza all’ISCP è nata la tua ultima opera, fulcro della mostra “A Cielo Aperto”: un’installazione di misure ambientali che introduce il pubblico in un corridoio aereo fatto di stralci di luce del cielo siciliano proiettato a parete e di fili di nylon bianco che delineano le rotte adibite al volo dei droni americani. La forza politica del lavoro è assolutamente in linea con la tua poetica, ma hai compiuto un importante passo a livello formale e concettuale. Dalle foto, dai video e dai suoni sei passata a occupare uno spazio tridimensionale e ad includere il pubblico in un’esperienza con l’opera più emotiva e partecipata. Come sei arrivata a questo cambiamento?
L’espressione idiomatica “a cielo aperto” incorpora simbolicamente l’idea di uno spazio illimitato e aperto a tutti, quindi non soggetto all’appropriazione o al controllo. In questo caso, il cielo di cui parlo è soggetto al potere militare e all’appropriazione esclusiva. Diventa uno spazio controverso, in cui libertà e potere, visibile e invisibile coesistono.
Volevo creare un’opera che fosse prima di tutto sensoriale, che portasse lo spettatore a “sentire” più che a vedere o capire, che rendesse visibili queste contraddizioni e svelasse i confini verticali dello spazio aereo controllato. Volevo che il lavoro fosse fruibile nella sua immediatezza, che non avesse bisogno di grandi spiegazioni, e che sintetizzasse nella sua formalizzazione il concept che stava dietro al progetto.
Come è costruita l’installazione?
Ho riprodotto fedelmente i corridoi aerei segreti usati dai droni che volano nel Mediterraneo, estrapolandoli da una mappa militare. Ho usato dei fili di plastica bianchi per “disegnare” le rotte e ho creato uno spazio tridimensionale appendendoli da una parete all’altra per riprodurre nello spazio i corridoi e rendere la “fisicità” di qualcosa di invisibile. Come si fa a segnare il cielo? Ho dato forma a un’astrazione (la mappatura del cielo) e ho giustapposto ad essa delle proiezioni del cielo siciliano che riempivano la stanza di luce blu.
In mostra c’erano anche quattro foto di largo formato, immagini che ho scattato lo scorso anno durante una manifestazione all’interno della riserva naturale Sughereta a Niscemi. A protestare quel giorno c’erano più di duemila persone, compresi bambini e anziani. Una mobilitazione popolare che diceva “no” alla nuova stazione per telecomunicazioni MUOS in costruzione proprio all’interno della sughereta e che una volta attiva emanerà onde elettromagnetiche ad altissima frequenza. Era il 9 agosto 2013 ed io oro appena rientrata da New York. Con grande entusiasmo ho partecipato alla manifestazione, munita di macchina fotografica e sciarpa per coprirmi il volto. Quel giorno è successo qualcosa di storico a cui purtroppo i giornali non hanno dato rilievo: abbiamo occupato la base militare e abbiamo marciato all’interno di essa. Vivendo all’estero non sempre posso prendere parte attivamente alle lotte per difendere e tutelare il mio territorio, ma attraverso i miei lavori posso raccontarlo. Questo ho cercato di fare qui a New York, non solo nella mostra all’ISCP ma anche nella mostra da Smack Mellon, curata da Sarah Lookofsky in cui, avendo a disposizione una intera sala espositiva solo per me, ho potuto presentare tre progetti il cui comune denominatore fosse oltre che la location (la Sicilia), un’indagine sulle diverse forme che possono prendere le strutture di potere che determinano la nostra società. Ho presentato più di venti immagini fotografiche e due lavori video. Load Displacement, il progetto sui flussi migratori che dall’Africa arrivano ogni giorno in Sicilia; le immagini dei faldoni del maxiprocesso con la veduta aerea di Corleone, e un video che fa parte del progetto If You Saw What I Saw. Infine, alcune immagini di Disrupted Accounts, il progetto sulla militarizzazione della Sicilia, di cui ho parlato prima. In mostra con me c’erano artisti che stimo moltissimo come Alfredo Jaar o The Otolith Group, ed è stato un grande piacere farne parte.
Vivi a New York da due anni ormai, come vedi il sistema dell’arte americano? Per un artista immigrato ci sono molte difficoltà oppure, ancora, molte opportunità?
A mio parere il sistema dell’arte è lo stesso ovunque, è dettato da dinamiche di mercato che sono globali. È fatto di persone serie e di imbecilli, di gente onesta e di ladri, di vittime e carnefici. Per un artista immigrato negli Stati Uniti le difficoltà possono essere uguali alle opportunità. Dipende dalla determinazione, dal talento e dalla capacità di adattamento.
New York è una città che offre tantissimo e che allo stesso tempo chiede tanto. Bisogna avere una grande flessibilità. A distanza di tre anni posso dire che di cose interessanti ne sono successe molte e che l’esperienza del Whitney Independent Study Program (ISP) fra tutte ha cambiato il mio modo di vedere le cose e mi ha dato le basi teoriche per strutturare in maniera più solida la mia ricerca.
Dopo l’ISP ho fatto una pausa di otto mesi in Italia che mi ha permesso di iniziare il progetto sulla militarizzazione dei cieli a cui sto ancora lavorando. Ho sviluppato un lavoro legato al territorio e l’ho poi riconsegnato ad esso attraverso la mostra Disrupted Accounts curata da Alessandra Ferlito e realizzata da Bocs a Catania nel febbraio 2013. Il film in 8mm che faceva parte della mostra ha poi viaggiato a Torino, presso la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e a New York all’ISCP perché faceva parte dei lavori in mostra.
Come dicevo prima, le occasioni per gli artisti qui a New York sicuramente non mancano e per mia esperienza, sono di più che in Italia. In tre anni oltre al Whitney Program ho preso parte a due residenze (Lower Manhattan Cultural Council e ISCP) e partecipato a diverse mostre, come la collettiva Tell Me What To Say curata da Natasha Marie Llorens che si è appena conclusa nella galleria Reverese a Brooklyn e dove ho presentato un lavoro fotografico di qualche anno fa, realizzato a Eastbourne in Inghilterra.
Non so dove tutto questo mi porterà ma so che mi sento attiva e questo mi fa stare bene.
Nel 2011 più del 64% degli abitanti del sud Italia che sono emigrati aveva un titolo di studio medio-alto; lo chiamano processo di “brain waste”, cioè spreco di cervelli. Tra il 2012 e il 2013 l’immigrazione italiana a Londra è aumentata del 50% così come quella degli spagnoli. Tempo fa il Sun di Rupert Murdoch titolava “Pigs here” giocando sul nome dato dai giornalisti economisti ai paesi del sud Europa. Tu da sempre sei attenta al tema dell’immigrazione – soprattutto verso il nostro Paese – cosa pensi possa accadere al meridione italiano?
Difficile fare una previsione, sembra che tutto al momento porti a una mobilitazione di massa che non interessa solo il mediterraneo, ma è globale. Peccato che per il Mediterraneo e il meridione d’Italia questa mobilitazione sia spesso una scelta forzata dovuta alle poche risorse offerte dal territorio. Un’enorme fase di emigrazione e di immigrazione sta interessando il sud d’Europa. Uno svuotamento che viene subito colmato dalle centinaia di persone che arrivano ogni giorno dall’Africa e dal Medio Oriente. A mio parere questo produrrà, come ha sempre prodotto nei secoli, un grande mescolamento di culture che arricchirà la nostra già variopinta identità. E parecchi dei “cervelli in fuga” di cui parli a un certo punto rientreranno, così come molti rifugiati politici e economici ritorneranno nelle loro terre d’origine.
Quali sono i tuoi prossimi impegni e i tuoi progetti a New York e in giro per il mondo?
Continuerò a fare base qui a New York e a ricevere l’energia e gli stimoli culturali che questa incredibile città offre. Porterò avanti il progetto sui cieli occupati e sulle relazioni internazionali legate ad essi e quindi mi piacerebbe fare un periodo di residenza in Medio Oriente, in particolare nei territori Palestinesi e in Israele. Ho anche in programma di ampliare l’indagine sul MUOS visitando le altre stazioni terrestri in Virginia, Australia e Hawaii.
Katiuscia Pompili
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