Già nel 2006 ad Alghero nella mostra Trama doppia, Antonio Marras aveva interpretato la personale dell’amica Carol Rama: una lettura comune di due menti ossessionate dalle cose trasformate dal tempo, modellate dal vissuto fino a diventare ricordi di travestimenti inventati, per vivere la vita come teatro.
La collezione Spring/Summer 2015, presentata a Milano a settembre, è ancora ispirata a lei, all’artista torinese dotata di quella follia femminile esasperata che porta nei luoghi dell’inconscio con violenza estetica. Un allestimento surreale di ruote di bicicletta e mani, mani che rimandano a tutto un genere artistico che non è solo di Carola Rama: fanno pensare alle mani nervose e che cuciono di Georgia O’Keeffe fotografate dal marito Alfred Stieglitz, alle tante mani di Jean Cocteau e alle mani disegnate da Dalí per gli abiti della Schiaparelli.
Un contenitore concettuale che rappresenta la volontà di inventare e allestire il luogo ideale per ospitare un pensiero nuovo, basato sull’incontro con altri pensatori, così come aveva fatto nel 2012 al Mart di Rovereto nella mostra Un altro tempo. La conoscenza di altro e dell’altro, poeta, musicista o artista, è la regola per produrre un nuovo eterno: l’unico sistema naturale per creare è lo sposalizio. C’è un senso di sacro latente nelle sue collezioni, di santità quotidiana fatta di eleganza sobria ma coltissima nelle sue citazioni alle origini ancestrali come agli artisti fratelli e sorelle.
Come nei bricolage di Carol Rama, i ricami e le texture di questa collezione sembrano composizioni di macchie a cui si aggiungono applicazioni, come lei aggiungeva occhi di vetro, denti e unghie.
Tante giovanissime Carol hanno sfilato con i capelli raccolti, un trucco illeggibile di bambine aristocratiche con scarpe comode, sandali bassi con tacchi grossi, scicchissime nel loro ipercolore: scarpe di una donna che non usa la sensualità come strumento. Gli stivali per l’estate sono disegni sulle gambe. I grafismi si sovrappongono, sembrano opere su carta, appunti d’immagini, ricerca concettuale sul suo femminile ideale: righe grandi bianche e rosse, floreali per geishe, mani, trasparenze sovrapposte anche nelle lunghezze. Le forme coprono il corpo senza disegnarlo, trapezoidali per gli abiti lunghi e cinte alte per creare un punto vita a silhouette squadrate, anche con trasparenze e plissé.
Sembra di assistere a un meraviglioso lavoro di colta indagine che guida le decisioni stilistiche, che porta alla certezza che l’interno dell’abito conti quanto l’esterno e che il colore sia qualcosa che non è dettato dalle ricerche di tendenza ma dall’ispirazione e dal lavoro artistico: arte + arte. Grazie a questa romantica e seria attitudine è così amato dalla stampa internazionale, quella che cerca l’Italia delle meraviglie e non della grande bellezza. Antonio Marras è la dimostrazione che ogni relazione fra arte, moda e altre discipline creative è il fenomeno che porta ai livelli più alti l’immagine dell’Italia.
Oltre ai molti lavori realizzati in collaborazione con artisti e da solo in spazi museali e non dediti abitualmente alla moda, per toglierci ogni dubbio sul contributo che il suo operato ha portato alla valorizzazione dell’arte italiana, nel giugno 2013 l’Accademia di Belle Arti di Brera gli conferisce la laurea honoris causa.
Ha collaborato con tante artiste – fortissimo il legame con Maria Lai – ma è stato capace di dialogare anche con artisti uomini, con compagni di un tratto di viaggio che va nella stessa direzione, come nella mostra di Palazzo Collicola a Spoleto, Insieme siamo altro. Marras-Bucchi, dove si sviluppa il tema del segno che crea l’immagine dell’abito o dell’opera, nella sua naturalezza di stilista artigiano e nella tensione creativa di Danilo Bucchi. Teatro e cinema sono altri passaggi inevitabili: Marras ha appena realizzato i costumi di Daniela Finocchiaro, protagonista del film L’Accabadora, con la regia di Enrico Pau.
Eclettico, curioso di ascoltare e parlare con chi si muove nella sua stessa direzione poetica e profondamente intellettuale, gira in ogni spazio creativo che consenta di dimostrare la validità della sua idea di costruzione di mondi onirici. Collezioni come racconti evocativi dove la realtà è testimoniata solo dalla sapienza del lavoro artigianale e manuale di chi materializza le sue visioni. Sarte della sua mai abbandonata Sardegna, ricamatrici e a volte lui stesso creano manufatti contemporanei ed eterni dove lo stile è la cultura, l’ispirazione è l’arte e l’esecuzione è della mano esperta che sa inventare perché conosce.
Nello stesso tempo, così come ci guida continuamente più da sceneggiatore o romanziere che da stilista, ci ricorda come per poter essere trasversali e credibili l’unica regola sia lo studio di quello che si vuole mescolare. In questo senso segna la strada giusta per tanti giovani cresciuti nella celebrazione dell’ibrido creativo, della velocità di rappresentazione di un blog e dell’autoreferenzialità che troppo spesso serve a nascondere l’insicurezza di non sapere abbastanza.
Clara Tosi Pamphili
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #22
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