Charlie Hebdo, l’11 settembre e il disimpegno degli artisti
Per le due stragi di Parigi – quelle nella redazione dello Charlie Hebdo e nel supermercato kasher – si è parlato di 11 settembre europeo. Dall’attacco a New York sono passati quattordici anni. E nel frattempo quando sono stati incisivi gli artisti nel raccontare le contraddizioni del nostro tempo?
Scrivo questa nota il 10 gennaio del 2015. Tre giorni fa alcuni ragazzi autoproclamatisi terroristi islamici sono riusciti con pochi mezzi economici, nessuna organizzazione e qualche arma di agevole reperibilità a seminare il panico in tutta Europa a partire da Parigi. 90mila rappresentanti delle forze dell’ordine francesi hanno impiegato tre interminabili giorni a neutralizzarli e non sono riusciti a impedire loro di mietere diciassette vittime. Ieri sono stati tutti uccisi dalla Gendarmeria e dalla Polizia francese.
Lo hanno chiamato l’11 settembre di Parigi e ci hanno così aiutato a ricordare l’anno durante il quale occorse l’11 settembre originario: era il 2001. L’abbattimento delle Twin Towers del World Trade Center a New York City sembra un episodio di attualità, di cronaca. È invece ormai parte della storia. Sono trascorsi quattordici anni e in questi quattordici anni di strisciante scontro e confronto di civiltà su scala globale la lettura che è stata data degli eventi da parte degli artisti risulta largamente insufficiente.
Insufficiente innanzitutto in termini numerici. La quantità di opere d’arte, la quantità di grandi opere d’arte a firma dei grandi nomi dell’arte visiva di questi decenni in qualche maniera rivolta a questa tematica è assai deficitaria. Lungi da noi aspettarci da pittori, videoartisti o scultori dei lavori che facciano la mera cronaca dell’attuale. Ma effettivamente appare singolare come quella che è stata la tematica globale per eccellenza dell’ultimo quindicennio sembri interessare tutti i creativi, tutti gli intellettuali, tutti i produttori di immagini, ma non gli artisti.
La dimostrazione proprio oggi, 10 gennaio 2015 appunto. Il Corriere della Sera, il principale quotidiano italiano, dedica molto spazio ai fatti di ieri e una pagina di commenti è illustrata dalle opere di un’artista. Si tratta di Shirin Neshat e i lavori risalgono a vent’anni fa. Tutti della metà degli Anni Novanta. Un po’ buonisti e scontati, come fu quel decennio. È un po’ come se il giornale non fosse riuscito a trovare niente di che oltre alle opere di un’artista che, per nascita, formazione e vocazione, giocoforza produce e produceva un immaginario vicino al rapporto tra Occidente e Islam. Al di là di quello, un po’ di vuoto. Un po’ di lavoro lo hanno fatto i critici, un po’ lo hanno fatto i curatori (Harald Szeemann decisamente just in time con la sua Platea dell’Umanità, che inaugurò nel giugno di quel 2001, esattamente tre mesi prima dell’attentato di Manhattan), ma gli artisti?
È possibile che tutti siano più sulla frontiera di loro? Possibile che gli artisti visivi stiano defilati rispetto alle tematiche più importanti dell’umanità? Possibile che la loro capacità di partecipare al dibattito contemporaneo venga surclassata da vignettisti, illustratori, scrittori, romanzieri, registi, giornalisti, fotoreporter? Possibile che quello di Ai Weiwei sia considerato il caso-emblema di artista scomodo, disturbatore, destabilizzatore rispetto a un determinato ordine costituito? Non può essere sufficiente.
La sensazione è quella di un esilio dorato. Il mondo dell’arte va a gonfie vele, è uno dei pochi settori che non solo non ha avuto conseguenze dalla grande crisi mondiale iniziata nel 2008, ma ne ha beneficiato in maniera smaccata. Lo scorso anno, il 2014, ha rappresentato dei record incredibili per quanto riguarda i risultati d’asta. E allora ci si è adagiati in questa straordinaria e inedita bolla di benessere, ci si è rilassati facendo il bagno in questo fiume di denaro. E si è pensato di trascurare i grandi temi del mondo. Di evitare di rischiare. Solo apparentemente però, perché la scelta di automarginalizzarsi è forse la scelta più scioccamente rischiosa che possa esserci.
Massimiliano Tonelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #23
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