Conversazioni d’arte. Laura Tansini ed Anthony Caro
Nono appuntamento con le conversazioni imbastite da Laura Tansini. Dopo Jeff Koons, Agostino Bonalumi, Pierre Alechinsky, Mario Merz, Richard Serra, Jannis Kounellis, William Kentridge e Tony Cragg, arriviamo a Sir Anthony Caro, grande scultore scomparso nel 2013.
Come nascono le idee per nuove opere?
Le idee vengano in molti modi; vengono dal lavoro, dal pensare, dal leggere, dal guardare, dall’arte antica, da qualcosa che si è visto per strada, da un pezzo di ferro… Da ogni luogo, da ogni attività, ma soprattutto dal rapporto con i materiali.
Quando ha un’idea, un’intuizione per un nuovo lavoro, la fissa in uno schizzo, usa fare disegni preparatori?
No, mai se posso farne a meno; faccio il possibile perché non ci sia intermediazione. Anche se l’idea alcune volte inizia nella mente, è quando vengo nello studio e vedo e tocco i materiali – cose reali, che hanno peso e volume – che comincio a formulare l’idea dell’opera; visualizzarla in un disegno sarebbe una specie di procedimento abbreviato che non mi interessa. Preferisco entrare direttamente nel merito del lavoro facendolo, sperimentando i materiali.
È la stessa ragione per cui crea l’opera nella sua dimensione definitiva, senza fare prima una maquette in scala ridotta?
Assolutamente sì. Può accadere che talvolta debba passare attraverso una maquette, ma si tratta veramente di un procedimento contrario ai miei desideri e alla mia necessità di lavoro. In questo momento sto lavorando a un progetto per una chiesa in Francia, una vecchia chiesa, una chiesa danneggiata e naturalmente devo prima progettare il lavoro in scala minore, 1:20 o 1:10, per discuterlo con l’arcivescovo e le autorità. Non mi trovo per nulla a mio agio, la maquette non ha nulla a che vedere con il vero lavoro, è una specie di impressione congelata… Mi rendo conto che è un passaggio inevitabile, ma se potessi ne farei a meno.
Quindi quando “mette mano” a una nuova opera incomincia scegliendo il o i materiali che userà e procede creando passo dopo passo?
Sì, l’opera non è inventata prima nella mente, è inventata mentre la realizzo.
Quando, o meglio, in che modo percepisce che l’opera è terminata, che non deve più aggiungere o togliere nulla?
Un artista americano ha risposto a una domanda simile dicendo “quando l’opera mi dice sì“. Anch’io credo che sia l’opera a dirmelo. Può succedere di avere un’incertezza, allora la lascio da parte; il giorno dopo la guardo e capisco se va bene o no. Credo che una delle cose più importanti nel fare arte sia avere uno buon metodo di lavoro, una tabella di marcia che permetta di lasciare il lavora a un punto tale che, quando lo ritrovi il giorno dopo, la sua vista ti dà l’energia per riprendere il cammino.
Quindi quando lavora a una nuova scultura, non vive l’ansia, l’urgenza di finire, di vedere come sarà…
No. L’urgenza è solo fare quello che sento di dover fare in quel momento e poi abbandonare l’opera e poi tornare… Per me è il miglior modo di lavorare.
Può accadere che, osservando un’opera finita o in corso di lavoro, non sia soddisfatto e l’abbandoni?
Qualche volta succede, allora la metto da parte. Può accadere che la metta da parte molte volte.
Ritiene che talvolta quelli che consideriamo errori ci stimolino a fare nuove esperienze?
Certo! A volte per un nuovo lavoro parto da un lavoro “lasciato da parte” che riprendo e che diventa un nuovo progetto.
Lei si considera uno scultore urbano e dice di non sentirsi a proprio agio quando le si richiede di creare opere per un parco dove deve competere con gli alberi. Eppure ha creato opere come Promenade, che allo Yorkshire Sculpture Park aveva una collocazione perfetta, e come After Olympia, che è molto comunicativa sia in un luogo chiuso (per esempio quando fu esposta ai Mercati Traianei a Roma) che all’aperto…
Per quanto mi riguarda, non sono molto favorevole ai parchi di scultura, perché a me piace la scultura nella città. Penso che la scultura funzioni meglio in città, meglio ancora in interni. Creare opere per il paesaggio non è quello che desidero fare, anche se mi piacerebbe misurarmi con un luogo molto grande. Ma dovrebbe essere un luogo veramente speciale.
Che effetto le fanno oggi i suoi vecchi lavori, quelli in ferro dipinto?
Mi piacciono ma non sarei più interessato a utilizzare quel linguaggio, sono andato oltre. A quel tempo era un modo per superare un certo modo di fare scultura. Oggi la situazione è cambiata da come si pensava e si faceva arte negli Anni Sessanta… Io sono cambiato. Già entrando negli Anni Settanta si è smesso di dipingere l’acciaio, gli si è permesso di parlare da solo. Forse questo è stato un modo per essere più a contatto con la realtà, con il mondo… Ora non sono più sicuro, non sono sicuro se comprendo il tempo che stiamo vivendo: da una parte siamo molto concettuali, molto idealisti…
Come considera l’arte di oggi?
Con interesse.
È ottimista?
Certo! L’arte è un luogo molto ricco. Recentemente sono stato a Milano e ho rivisto il Duomo e ancora una volta mi sono stupito del passaggio che c’è stato tra la semplicità della classicità e la complessità del gotico; a quel tempo deve essere stato un grande choc. E andando avanti nei cambiamenti che si sono susseguiti nei secoli, penso che certi modi che sono venuti dopo non siano stati altrettanto belli, ma non ha importanza, c’è qualcosa di buono in ciascun periodo e ogni periodo è stato importante per passare al successivo. Penso e credo che l’arte continuerà a cambiare, svilupparsi, crescere; per questo è necessario che avvengano cambiamenti, in questo senso sono ottimista, ma bisogno considerare questo processo sul lungo termine, non fermarsi al presente.
Laura Tansini
Estratto da un articolo pubblicato su “ArteIn” numero 81 (ottobre-novembre 2002)
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