Di un iPad e altre storie. Intervista con Enrico Boccioletti
Classe 1984, grafico autodidatta, appassionato di nuove tecnologie e musica elettronica, Enrico Boccioletti è un artista a 360 gradi, con collaborazioni che spaziano dall’ambito teatrale e performativo alla moda. Ha cominciato a suonare da adolescente in un gruppo chiamato Damien*. Da qui nasce il suo interesse per la produzione audio, poi la fascinazione per le nuove tecnologie grazie a un corso all’Accademia di Brera. Ha una predisposizione a sperimentare e ad addentrarsi in ambiti sempre nuovi, a partire dal suo blog e da un semplice quanto straordinario progetto su Twitter. Ed è l’artista che ha realizzato la copertina di Artribune Magazine numero 22.
Che libri hai letto di recente e che musica ascolti?
Altissima povertà di Giorgio Agamben e, immediatamente prima, The Wretched of The Screen, raccolta di saggi brevi di Hito Steyerl. Ora Selected Writings 2000-2014 di Paul Chan. Musica: Lorenzo Senni, TCF, The Radio Dept., Gigi d’Agostino, Sparklehorse e Dean Blunt.
I luoghi che ti affascinano.
Riviera romagnola, fra ottobre e maggio, dopo le tredici, o prima delle sette del mattino.
Le pellicole più amate.
Mullholland Drive di David Lynch; Il posto delle fragole di Ingmar Bergman; vari di Werner Herzog e Michelangelo Antonioni.
Artisti guida.
Seth Price, Hito Steyerl, Paul Chan, Mike Kelley, Luciano Fabro, Tacita Dean, Jenny Holzer, Claude Closky, Alberto Giacometti e Isa Genzken.
Nella tua ricerca prevale l’uso delle tecnologie, ma la sfera dell’emotività e della percezione umana vanno di pari passo. Come combinare i due opposti?
La scelta è consapevolmente politica. Lo spettro interessante è l’interazione fra singoli individui, nel respiro profondo di una comunità socialmente iper-accelerata e la disposizione autistica e intrinsecamente “anaffettiva” della mia generazione, cresciuta durante la capillarizzazione della tecnologia informativa e l’esplosione dell’infosfera.
Il fotografo inglese Rankin ha detto che l’analogico è monogamia, i social media infedeltà.
È un’affermazione che regge, anche se non ne farei a tutti i costi una questione di medium. Piuttosto, a un eccesso di stimoli è facile che possa corrispondere un’incapacità d’attenzione di fondo, fondamentale alla costruzione di un rapporto privilegiato che ha a che fare con l’esclusività della monogamia. La monogamia potrebbe essere un sistema tanto fallimentare quanto le teorie e pratiche economiche basate sul capitale.
Hai fatto parte di una band per poi proseguire da solista. La musica è un elemento imprescindibile nel tuo lavoro, che spesso si contamina con l’ambito più teatrale, performativo.
Scrivevo, cantavo e ho suonato la chitarra per anni in un trio di nome Damien*. Abbiamo fatto più di duecento concerti in Italia e in Europa, e girare il mondo è stata una bella possibilità. Poi come Death in Plains ho fatto altro, più in un ordine d’idee non-band che da “solista”. Per un po’ ho smesso, ora continuo in modo più fluido, contribuendo all’apparato sonoro di alcuni lavori di Mara Cassiani, e in questi giorni con Alessandro di Pietro per il suo film New Void.
Sei un grafico autodidatta, eppure molte delle tue immagini hanno una fortissima impronta grafica. Sembrano studiate più per un’agenzia di comunicazione che per mostrarle in uno spazio espositivo.
Apprezzo l’artificio, lo trovo sincero e punk al giorno d’oggi. Ho una curiosità innata per l’astrazione delle immagini e una capacità acquisita nell’elaborarle e costruirle. Penso che i cartelloni giganteschi di Samsung che si vedono in molte città siano più interessanti e “reali” di tanti lavori visti in galleria negli ultimi anni.
Hai un blog in cui raccogli il materiale di un singolo progetto: immagini scaricate dalla Rete, scontornate e rielaborate con l’ausilio di un software che rimuove le imperfezioni. Persino le didascalie sono generate da un algoritmo. Mi vuoi raccontare meglio?
Content Aware, come l’omonima funzionalità di Photoshop, un algoritmo che genera automaticamente all’interno di un’area un pattern calcolato coerentemente ai pixel circostanti. Le identità precise dei ritratti di partenza, negate della propria singolarità, sono reinserite in un flusso, un momento fuori dal tempo, una nuova non-forma. Contemporaneamente nessuna identità e tutte quelle possibili.
Hai realizzato immagini con stampe adesive su pvc, le hai accrocchiate su oggetti e le hai fotografate. Le sculture sono state distrutte e a rimanere è la documentazione fatta di immagini glossy e raffinate.
“Fake Can Be Just as Good”.
Mappa, archivio, tecnologia, sonorizzazione, ripetizione. Mi dai una tua personale definizione di questi termini piuttosto ricorrenti nel tuo lavoro?
Sono strategie d’indagine del privato atte alla comprensione dell’universale.
Ho trovato il tuo progetto su Twitter @OnlineKawara straordinario: dovresti mostrarlo a John Baldessari, sono sicuro che lo troverebbe altrettanto stimolante. Hai presente il suo lavoro I will not make any more boring art?
Grazie, sì lo conosco. È un’operazione assimilabile, anche, a quella di Alejandro Cesarco con la sua serie When I am Happy.
Com’è nata l’immagine inedita per la copertina di questo numero?
Volevo ottenere un’immagine evanescente ed eterea ma, allo stesso tempo, con un forte rimando materico.
Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #22
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