Enzo Cannaviello, la pittura tedesca e la galleria in franchising
Il rapporto con Lucio Amelio, le vicende insieme ad Achille Bonito Oliva, la Transavanguardia e i "selvaggi" tedeschi. E i cambi di città, da Caserta a Roma, da Roma a Milano. Fino all'abbandono delle fiere e alla sperimentazione del franchising. La storia di Enzo Cannaviello in questa ennesima intervista con i grandi galleristi italiani.
La storia di Enzo Cannaviello gallerista parte sotto l’egida di una figura importante come quella di Lucio Amelio. Come è avvenuto il vostro incontro?
Tutto nasce grazie a mia moglie, che da giovane aveva intrapreso la carriera di artista. Lei riuscì a entrare nella galleria di Amelio, con cui fece anche una mostra: è attraverso questa esperienza che ebbi l’opportunità di conoscere io stesso Lucio e di frequentarlo, fino a diventare prima una sorta di assistente, poi un vero e proprio socio nel momento in cui – dopo circa un anno dal nostro primo incontro – aprimmo a Caserta lo Studio Oggetto.
Come è stato avere a che fare con un uomo come Amelio?
A dispetto del mio accento, che è rimasto fortissimo, non posso dire di sentirmi napoletano: per mentalità mi ritengo semmai teutonico! È per questo, forse, che il rapporto con Amelio, per quanto lui fosse geniale e autorevole, si è deteriorato in fretta: aveva l’indole dell’uomo del sud, un carattere mediterraneo. Troppo diverso dal mio perché si riuscisse ad andare d’accordo a lungo. E così, dopo meno di un anno, rompemmo.
Due personalità fortissime, le vostre. Ma non le uniche nella scena artistica di Napoli e dintorni in quegli anni…
Ebbi la rivelazione di ciò che stava accadendo nell’arte contemporanea ad Amalfi, nel ’67, grazie alla grande mostra sull’Arte Povera allestita da Marcello Rumma; conobbi negli stessi anni un giovanissimo Mimmo Paladino, appena uscito dai banchi di scuola, del quale ospitai le sue prime due personali. E poi c’era Achille Bonito Oliva: riuscii a fargli presentare, a Capua, la prima mostra della sua vita, intitolata Ricognizione ‘68.
Con ABO incontriamo un altro personaggio di carattere: che rapporto avevate?
Dico solo che, quando si trasferì a Roma, il trasloco glielo facemmo Lucio Amelio ed io: ero l’unico del gruppo ad avere un’auto abbastanza capiente per trasportare tutte le sue cose. Al di là di questo episodio, il rapporto restò buono fino a quando non me ne andai da Roma: credo che da parte sua, e anche da parte dell’ambiente artistico della città, questa scelta fu vista un po’ come una specie di “tradimento”. Poi ABO lavorò con gli artisti della Transavanguardia, io con i tedeschi del Nuovo Espressionismo: a separarci fu anche una questione se vogliamo estetica, ma soprattutto perché ritenevo il movimento tedesco avesse un’esteticità più radicata nelle sue tradizioni pittoriche.
Facciamo un passo indietro: noi l’abbiamo lasciata a Caserta. A Roma come ci arriva?
Caserta finì con lo starmi stretta: del resto parliamo di una città dove il tipo di arte che proponevamo non veniva ovviamente compresa! Avevo bisogno di un respiro più ampio. Da qui la scelta, nel 1971, di trasferirmi a Roma.
Nella Capitale quali condizioni trovò?
A Roma, allora come oggi, le case sono abbastanza piene di opere, ma era ed è un collezionismo spesso autoreferenziale e non scientifico, fatto sul passaparola quando non sulla base di rapporti che esulano dalla qualità dell’opera stessa. Per cui capita che la fortuna di un artista sia favorita dal campanilismo, dalle sue relazioni e dai rapporti di amicizia con i collezionisti.
Non è difficile immaginare, allora, un nuovo cambio di rotta.
La scelta di Roma era stata in parte influenzata da motivi estranei all’arte: penso alla vicinanza della mia famiglia, al lavoro di mia moglie, dalla quale nel frattempo avevo avuto un bambino. Ma i figli crescono, così nel 1977 i tempi erano maturi per poterci spostare nuovamente. Questa volta, finalmente, a Milano, dove avvenne l’incontro tanto determinante quanto – se vogliamo – casuale con tutta la scena artistica mitteleuropea del periodo.
Come avvenne?
Un giorno si presentò in galleria una giovane artista di Berlino, in Italia per esibire il proprio portfolio. Il lavoro non mi convinse, ma fui incuriosito dal tipo di pittura che proponeva e le chiesi come fosse la scena tedesca, di cui all’epoca sapevamo poco. Lei mi parlò degli artisti della Neue Wilden e della loro galleria autogestita: il giorno dopo ero già sull’aereo. Siccome per i miei rapporti conflittuali con ABO ero rimasto orfano della Transvanguardia, mi gettai su questo filone, scoprendo – oltre ai vari Hoedicke, Fetting, Middendorf, Zimmer, Koberling ecc. – anche la scena di Colonia con Baselitz, Penck, Immendorf, Polke, Dahn ecc.
La prima mostra di artisti tedeschi a Milano a quando risale? E che accoglienza ha avuto?
Eravamo nel 1979 e vennero poche persone, proprio perché questi artisti non erano conosciuti. Come pure a quelle successive, nei primissimi Anni Ottanta, il mondo dell’arte milanese fece fatica a cogliere cosa stavamo proponendo. Ricordo ancora la prima mostra che feci con Sigmar Polke, certamente tra le più importanti della mia carriera, un evento strutturato in tre momenti diversi. Il primo mese avevamo diciotto emulsioni fotografiche su tela, tutte delle dimensioni di 70×100; il secondo mese opere su carta e il terzo grandi tele. Lui venne solo per il primo opening, in quanto rimase abbastanza deluso per le poche persone presenti in quell’occasione.
Il mercato quando si è sbloccato?
Negli Anni Ottanta sono andato avanti molto faticosamente, sino a quando cominciai a essere sostenuto fortemente da Giovanni Testori, che scoprì proprio nella sede di via Cusani la scuola tedesca e prese a scrivere recensioni e pagine critiche meravigliose sul Corriere della Sera. La gente iniziò a frequentare la galleria, arrivava direttamente con una copia del giornale sotto il braccio. E, tra tanti visitatori, non mancarono i collezionisti, anche molto importanti, a partire dallo stesso Testori arrivando a Carlo Monzino.
Come è cambiato il mestiere del gallerista da quella stagione, se vogliamo ancora un po’ eroica, ai giorni nostri?
Quello del gallerista è un mestiere strano perché, a differenza delle altri componenti del sistema dell’arte (artista, critico, collezionista), il suo lavoro gioca sull’equilibrio tra capacità intellettuale, cultura personale e abilità economica. L’intuito però ti porta fino a un certo punto, poi devono intervenire le finanze. Se il gallerista non ha le spalle coperte da un ricco patrimonio personale, non può diventare un professionista di livello internazionale. Non è casuale se non ci sono gallerie italiane che hanno la possibilità di fare mostre di nomi importanti come Damien Hirst, Jeff Koons, Peter Doig, Gerhard Richter ecc. Ciò è dovuto al fatto che un grande artista lavora in esclusiva con una grande galleria che, se ti permette (cosa molto rara) di esporre uno dei suoi artisti, concede uno sconto del 30% sul prezzo di listino. Ma questa percentuale – a causa delle brutte abitudini italiane – è poi quanto ti chiede di sconto il collezionista nostrano. Per cui, alla fine, lavorare con certi nomi è di fatto impossibile. Teniamo anche presente che il mercato italiano non è così appetibile, soprattutto per motivi fiscali, e così è molto difficile che le gallerie straniere accettino di collaborare con noi.
In un panorama del genere, come guarda al sistema delle fiere e alla loro capacità – o meno – di influenzare il mercato?
Con le fiere ho un rapporto conflittuale, anche se in passato vi ho spesso partecipato, in particolare a Bologna e Basilea. Una sola volta ho partecipato a quella di Madrid, ma perché ero in una selezione di gallerie italiane scelte da ABO. Il mio atteggiamento è contrario alle fiere perché, secondo me, hanno contribuito – insieme alle case d’asta – alla trasformazione del collezionismo, hanno fatto prevalere la componente speculativa a danno di quella culturale. Siamo insomma al paradosso dell’arte acquistata con le orecchie e non con gli occhi, fenomeno accelerato dal momento in cui le case d’asta hanno cominciato a puntare in modo deciso sul contemporaneo. Ho sofferto per anni questa situazione, fino a che non ho detto basta e mi sono chiamato fuori.
L’ultima evoluzione di Enzo Cannaviello è nell’ordine di una sorta di modello “franchising”, con una serie di piccole realtà consociate che propongono gli artisti della galleria. Una risposta local al modello global imposto dal mercato?
La crisi ci ha portato a inventare nuove forme di distribuzione dell’arte: ho pensato di cercare nuovi pubblici, costruendo una rete di gallerie che risponde sì alla mia direzione artistica, ma dove ogni realtà è libera di creare le dinamiche che ritiene migliori per quel territorio. La scelta delle città in cui aprire nasce sulla base del rapporto di fiducia e stima con i partner che si avvicinano a questo progetto: sulle loro conoscenze, sulla voglia di fare. Per un giovane gallerista il vero problema è garantire agli artisti il loro lavoro, metterli nelle condizioni economiche per poter creare. Se a questo riesco a ovviare io con la mia galleria, è più facile gestire uno spazio espositivo dedicato al contemporaneo. E i risultati arrivano: era impensabile, ad esempio, che una galleria d’arte contemporanea appena aperta in una città come Cremona avesse successo, e invece sta accadendo. E, considerato che abbiamo inaugurato una nuova sede a Linz, direi che il modello funziona.
Francesco Sala
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #22
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