Studio Nemesi. Il Padiglione Italia ad Expo lo hanno fatto loro. Intervista agli architetti
È lo studio di architettura che ha progettato il Padiglione Italia per Expo2015. Ed è stata da poco posata la prima pietra del loro ultimo progetto, il “Joomoo Amazing Asia Pavilion”, quarto padiglione cinese all’Esposizione milanese. Di quello che sta succedendo a Milano in questi mesi, dei progetti futuri e delle critiche nei confronti del Padiglione Italia, per molti troppo simile allo Stadio Olimpico di Pechino 2008, abbiamo parlato con Michele Molè, socio fondatore dello Studio Nemesi.
Una breve auto-presentazione.
Nemesi prende vita alla metà degli Anni Novanta. Un gruppo di giovani molto agguerriti decisero di partecipare al primo concorso internazionale indetto a Roma dopo molti anni, quello per la realizzazione delle Chiese del Giubileo del 2000. La partecipazione fu enorme, noi avemmo la fortuna di arrivare secondi e sulla scorta di quel successo siamo riusciti ad avere un incarico dal Vicariato. Aver trovato sin da subito un committente così importante a Roma, disponibile a spendere per realizzare un’opera innovativa come la Chiesa di Santa Maria della Presentazione al Quartaccio, è stata un’occasione straordinaria.
Dopo poco tempo è stata costituita Nemesi come associazione di professionisti tra me e Maria Claudia Clemente. Abbiamo realizzato il ristorante Duke’s in viale Parioli a Roma e un’altra serie di opere che ci hanno reso uno degli studi più visibili in ambito romano e italiano. Nel 2002 mi sono separato dalla mia socia e di lì a poco è subentrata Susanna Tradati, con cui abbiamo costituito la Nemesi and Partners, società che ha preso vita dal 2004.
Abbiamo realizzato lo studio in cui ci troviamo in questo momento, in via di Pietralata, e siamo arrivati a vincere in Italia i concorsi più importanti. Un esempio è il nuovo headquarter Eni a San Donato Milanese – un progetto da 200 milioni di euro – in cui abbiamo avuto la fortuna di collaborare con lo Studio Morphosis di Thom Mayne. E poi abbiamo vinto il concorso per il Padiglione Italia a Expo2015, che ci ha portato sin da subito un grande successo e una grande visibilità.
Parlando del Padiglione Italia a Expo2015, qual è stato il vostro approccio al progetto?
Da una parte è un tipico progetto Nemesi. Noi siamo particolarmente interessati al lavoro sulla complessità, sull’architettura sistemica, non intesa come architettura-design. E il Padiglione Italia, nella ricerca di un’architettura non banale, anzi, passami il termine, eroica, ne è la rappresentazione. Questo va di pari passo insieme ad altri due elementi fondamentali. Il primo: riuscire a fare un’architettura che fosse anche, tra virgolette, pop. Che fosse in grado di comunicare con la velocità del mondo contemporaneo, del web, della superficialità dell’immagine. Da una parte complessità, profondità, ricchezza, lentezza. Dall’altra velocità e capacità di comunicare all’interno del linguaggio contemporaneo.
Terzo elemento cardine: sentivamo l’esigenza di esprimere una sorta di identità culturale italiana. Abbiamo cercato di farlo individuando un tema su tutti, quello di comunità. Se il tema di Expo è nutrire il pianeta, noi abbiamo cercato di farlo nell’ambito di un principio comunitario. E l’Italia è il luogo che, dal punto di vista archetipico, ha costruito l’idea stessa di comunità urbana e di urbanità. Abbiamo focalizzato tutto questo nell’idea di piazza, il luogo dove la comunità si rappresenta. E il Padiglione lo abbiamo immaginato con al centro un vuoto, un organismo che si sviluppa attorno a questo vuoto come un microcosmo urbano.
Mancano meno di quattro mesi all’inaugurazione di Expo: come procedono i lavori? Quali sono le difficoltà che avete incontrato?
C’è grande preoccupazione perché i tempi sono al limite dell’impossibile. Ma questo impossibile lo stiamo realizzando attraverso il contributo di tutti. C’è stata qualche problematica iniziale per mettere a regime il cantiere, dopodiché Italiana Costruzioni ha marciato con grandissima velocità. Si lavora su tre turni, 24 ore su 24. Tutta la parte strutturale è stata conclusa a ottobre. Poi è stata la volta della squadra per la copertura e la facciata. Tre appalti da gestire in contemporanea.
Siamo abbastanza ottimisti, seppur sarà una corsa contro il tempo. Ci sono circa 140-150 operai al lavoro dentro Palazzo Italia, ma in totale sono più di 500. C’è un’attività che in questo momento sta coinvolgendo il meglio del know-how italiano. E questa era la nostra sfida. Volevamo che il Padiglione Italia diventasse il faro di quello che oggi l’Italia è in grado di produrre.
Come rispondi alle critiche che vedono il Padiglione Italia molto, forse troppo simile allo Stadio Bird’s Nest progettato da Herzog & De Meuron con Ai Weiwei per le Olimpiadi di Pechino del 2008?
Capisco la provocazione. La risposta è che siamo in un contesto in cui per anni si è pensato che la produzione del nuovo, di immagini il più possibile strane e diverse fosse l’elemento fondante, anzi “sfondante”. Per riuscire a esistere bisognava essere presenti. Per essere presenti bisognava proporre un nuovo portato a oltranza. Io ritengo che quella stagione, quella rincorsa al nuovo, al diverso, al “famolo strano”, non sia garanzia di alcun tipo di sperimentalità né di qualità. Anzi, in una situazione in cui c’è una produzione incredibile di immagini in tutto il mondo, oggi, di nuovo, non fa più niente nessuno.
Quante cose io ti potrei dire che sono state fatte prima di Herzog & De Meuron che loro avrebbero copiato. Ma non lo dico, sarebbe inutile. Oggi non è più questo il criterio. Oggi il criterio è capire qual è il livello di necessità, legittimità, profondità, interesse, sperimentalità che l’opera propone. Da questo punto di vista, l’esemplarità dell’opera che noi stiamo proponendo è totale. E poi sono anche convinto che, nel momento in cui lo vedrete realizzato, vi renderete conto che è totalmente un altro mondo.
Raccontaci questi caratteri sperimentali del Padiglione Italia di cui parli.
La sostenibilità in questa Esposizione Universale è un aspetto primario. Ci veniva chiesto di pensare al Padiglione Italia come a un vivaio, una fucina di nuove idee per la costruzione del futuro. Da qui abbiamo avuto l’idea di immaginare il progetto come una foresta pietrificata – non un nido come quello di Herzog & De Meuron – che, partendo da terra, come fa l’albero, fondasse le proprie radici. Poi, ramificandosi verso l’alto, ampliandosi attraverso le proprie fronde e attraverso la copertura-fronda, potesse restituire quell’energia che la terra gli aveva donato. Un progetto quindi osmotico, che si apre alla dimensione informale. L’edificio è infatti a emissioni zero. Lo dicono tutti ma non lo fa nessuno.
E la facciata? Qual è la sua particolarità?
La facciata è stata realizzata attraverso un’invenzione tecnologica che abbiamo sviluppato insieme a Italcementi. Si tratta di un cemento chiamato biodinamico, brevettato appositamente per il Padiglione Italia, che ha delle caratteristiche prestazionali mai viste prime: un comportamento fino a dieci volte superiore a quello tradizionale con una speciale caratteristica per cui, attraverso un procedimento chimico generato dalla luce, che si chiama fotocatalitico, riesce a far decadere le componenti dell’inquinamento. È osmotico rispetto all’ambiente, partecipa a pulire l’ambiente e pulisce se stesso. E poi ha una straordinaria fluidità che ci ha permesso di immaginare una pannellizzazione in cui far fluire questo cemento in figure complesse. I pannelli sono più di ottocento e sono tutti diversi tra loro. È una vera e propria scultura.
Le polemiche e i ritardi si sono susseguiti in questi mesi. Da progettisti coinvolti, come vedete Expo e le trasformazioni urbane che stanno investendo Milano?
Siamo in Italia, Expo è una straordinaria vetrina e in quanto tale pone il meglio e il peggio del sistema Italia. È chiaro che sia partito nel peggiore dei modi, si è perso tantissimo tempo per qualcosa che nulla ha a che fare con gli aspetti culturali e di trasformazione urbana. Il risultato venuto fuori è mediatorio. Il masterplan complessivo secondo me ha perso gran parte dei contenuti innovativi che il primo masterplan aveva. In più le modalità con cui si è andato avanti non sempre hanno garantito quella ricerca della massima qualità che si vorrebbe per una manifestazione di questo genere.
Devo dire però, per quanto riguarda il Padiglione Italia, che il management ha creduto fortemente nel progetto. L’augurio è che la qualità possa essere sempre più un elemento su cui il sistema Italia si fonda. Ma questo è più facile a dirsi che a farsi. Perché tutto il sistema Paese non è costituito su questo. E qui lancio io una provocazione. Ma perché l’università è un sistema che favorisce la qualità? Ma perché gli studenti sono sempre pronti a scommettere sulla propria qualità?
Progetti futuri. Su cosa state lavorando al momento?
In seguito alla vittoria del Padiglione Italia abbiamo avuto modo di prendere la progettazione del quarto padiglione cinese dentro Expo. Non è un padiglione ufficiale del governo cinese ma un “corporate” che una grande società cinese vuole realizzare, si chiama Joomoo. Pensate, è il quarto. Ci saranno più padiglioni cinesi che italiani. Ed è proprio in Cina che stiamo espandendo parte della nostra attività. Abbiamo lavorato al masterplan di un nuovo quartiere della moda a Pechino, si chiama Ncc – New creative cluster, con due milioni di mq di nuove costruzioni. Stiamo inoltre indagando territori come il Sudamerica, siamo stati invitati recentemente a tenere conferenze in Brasile e a breve andremo in Messico ed Ecuador. Da questo punto di vista il Padiglione Italia ci ha dato una visibilità particolarmente importante. È uno strumento che, oltre a renderci riconoscibili in ambito internazionale, ci sta dando molto.
Zaira Magliozzi
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