Partiamo con un po’ di storia. All’inizio eri artista. No?
All’inizio ero bambino; disegno tantissimo da allora.
Come è avvenuta la tua trasformazione in gallerista: in che anni siamo? Perché la scelta dell’Italia e di Milano?
Il mio sogno era di creare un gruppo di artisti, andare in un posto e fare un movimento. All’inizio tutti gli artisti della galleria provenivano da tanti posti del mondo tranne che l’Italia. Igor Eskinja dalla Croazia, Diango Hernández da Cuba, Adriana Cifuentes e Luis Molina-Pantin dal Venezuela, Franklin Evans dagli Usa e così via… È curioso questo fatto, nessuno di noi era originario di Milano. Claudia Gian Ferrari è stata molto carina e attenta verso tutti noi.
Per me non è stata una trasformazione così radicale come la domanda suggerisce; il mio interesse per l’arte non è solo per l’opera ma anche per il contesto in cui l’opera diventa arte. La galleria ormai fa parte dell’opera.
Ma perché sei venuto in Italia?
Per conoscere mio padre: l’avevo visto pochissimo, la prima volta quando avevo 13 anni e dopo una o due volte tra i 15 e i 18. Purtroppo non siamo riusciti a capirci, ormai non lo vedo da dieci anni. Nel frattempo ho conosciuto Francesca, la madre dei miei due figli, Marta e Arturo, che sono nati a Milano.
La galleria come è andata? Quali sono stati gli alti e i bassi? Quali le soddisfazioni? Sei riuscito a dare il tuo punto di vista?
La galleria è andata molto bene, per me è stata la migliore università, master e PhD, tutto insieme. Ho imparato tantissimo grazie ai colleghi, grazie agli artisti, grazie agli amici e alle esperienze.
Rimpianti?
Non ho un rimpianto in particolare, dall’inizio tutti mi avevano avvertito che in Italia il mondo dell’arte contemporanea era più difficile e complesso che altrove. Un caro amico italo-venezuelano, appena mi sono trasferito in Italia, mi ha detto: “Non conosco nessun venezuelano che sia andato in Italia e abbia fatto i soldi“. I soldi non erano la prima cosa, per me era importante rimanere aperto e lasciare un segno. Penso di averlo fatto.
Durante i tuoi primi anni da gallerista hai smesso di fare l’artista o hai sempre continuato?
Ho sempre continuato, e avevo tante idee. La galleria è parte del mio processo, delle mie domande: mi interessa la creazione dell’aura.
Da qualche tempo le tue opere, che firmi come artista, sono apparse anche in qualche fiera, negli stand della tua galleria. Qual è stata la reazione dei collezionisti?
Diciamo che è stato un provino per capire la reazione. Una cosa importante era capire se poteva vendersi o no. Oggi se un collega mi chiede un’opera, sono sicuro che si può vendere. Non tutta l’arte si può vendere.
E qual è stata la reazione degli artisti della tua galleria? Non hanno paura che, con un collezionista indeciso, tu possa promuovere prioritariamente le opere del “te” artista?
Giovanni Rizzoli è stato molto importante, mi ha parlato molto e mi ha dato fiducia, io gli voglio bene. Altri si sono sorpresi. Enzo Cucchi mi ha detto una cosa che mi ha dato molta energia. Ma forse me la tengo per me.
No, dai, diccela.
Mi ha detto: “Finalmente uno che sogna“.
Ancor più di recente, hai assunto anche il ruolo di curatore. Ci racconti? All’estero figure eclettiche come te (artista, gallerista, curatore) sono più diffuse. La sensazione è che in Italia la cosa sia considerata con maggiore provincialità. È così?
Duchamp, Breton, Castellani, Manzoni, Sol LeWitt erano tutti anche galleristi. Da gennaio 2014 c’è Gabriela Galati come direttrice della galleria (argentina, quindi anche lei con accento spagnolo), sta finendo un PhD in Inghilterra ed è professoressa di Mass Media alla NABA. E se si pensa a noti galleristi italiani… Anche Emilio Mazzoli e Aninna Nosei erano professori.
Noi siamo quello che siamo… Ho preso una strada: forse non è la strada più corta, ma è quella che mi rende più felice.
Massimiliano Tonelli
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati