Francesco Rosi, in memoriam (1922-2015)
Con Francesco Rosi se ne va il precursore e il rappresentante più alto di quel “neorealismo continuo” che ha innervato e accompagnato non solo il cinema, ma l’intera produzione culturale italiana per almeno tre decenni. Dal secondo dopoguerra fino agli Anni Settanta.
Se Roberto Rossellini da una parte, Vittorio De Sica e Cesare Zavattini dall’altra avevano saputo porre le basi di un modo di rappresentare e raccontare la realtà, e prima ancora di incontrarla, di approcciarsi ad essa (un modo fatto di documentarismo, scarsità, essenzialità, tragicommedia, incursioni nel melodramma), costruendo un linguaggio nuovissimo eppure ricco di tradizione, Francesco Rosi riesce a sviluppare e articolare virtuosamente questo stesso linguaggio, piegandolo alle esigenze di una società in tumultuosa trasformazione e sganciandolo definitivamente dai pericoli dell’irrigidimento, dell’accademismo, della ripetitività.
Basta guardare le primissime scene de I magliari (1959), secondo lungometraggio che il regista dirige dopo un lungo apprendistato come aiuto regista di Luchino Visconti (La terra trema, 1948; Senso, 1953) e come sceneggiatore (Bellissima, 1951; Processo alla città, 1952). Mentre scorrono i titoli di testa, il nostro sguardo viene guidato alla scoperta di Hannover negli anni Cinquanta, vista dal punto di vista di Mario (Renato Salvadori) questo emigrante completamente sperduto e ingenuo, e in pochi tratti scopriamo un intero mondo: la Germania del dopoguerra il cui immaginario è stato totalmente colonizzato dai vincitori (Amerikan Automaten), la presa e l’aspetto alieno di questo stesso immaginario luccicante e quasi fantascientifico agli occhi di italiani poverissimi, il clash culturale, il disagio e le opportunità.
Con il successivo Salvatore Giuliano (1962), Rosi conia un originalissimo procedimento costruttivo e narrativo, un tessuto fatto di rimandi e flashback, che sarà fondamentale per la sua opera successiva e che influenzerà tutto il cinema d’inchiesta italiano (Elio Petri su tutti) – genere purtroppo oggi piuttosto trascurato e dimenticato. Ma è Le mani sulla città (1963) a rappresentare il suo vero capolavoro: un film in grado di mostrare un’ulteriore via di rappresentazione della realtà italiana attraverso lo spazio della città, dopo l’affresco e l’immersione totale de La dolce vita (1960) di Federico Fellini e l’equivalenza straniante tra personaggi e elementi del paesaggio urbano ne L’eclisse (1961) di Michelangelo Antonioni. Rosi riesce a comporre un’opera che combina l’aspetto documentario con quello visionario e metaforico (l’ufficio-studio, proiezione di un luogo mentale, con le mappe gigantesche e le accumulazioni di palazzi riprodotte ossessivamente alle pareti): il suo scavo di Napoli e uno degli scavi più atroci e penetranti nell’identità italiana, e l’agghiacciante Edoardo Nottola è un personaggio attualissimo, ancora perfettamente riconoscibile tra noi. Attraverso cui il regista interroga ancora e sempre una nazione, perché non si arrende al suo perenne degrado.
Dopo Uomini contro (1970), Il caso Mattei (1972) prosegue la tecnica compositiva di Salvatore Giuliano, portandola alle estreme conseguenze a rendendola vertiginosa, nervosa, iperattiva: perfettamente adatta, dunque, a catturare da una parte l’ascesa storica del presidente dell’ENI, dall’altra il clima culturale dei primi anni Settanta in cui il film emerge. L’attore feticcio del cinema politico, Gian Maria Volonté, viene inserito in un vortice narrativo che scandaglia non solo la complessa psicologia del protagonista, ma anche le pieghe e gli interstizi della ricostruzione italiana, un intero modello economico che avrebbe potuto generare da solo un diverso Paese – e che non è stato. Lo scandaglio prosegue con un film tutto sommato molto sottovalutato, Lucky Luciano (1973), che ha il grande merito di costruire un pendant crudo, antiretorico, scabro, gelido della mitografia appena confezionata da Hollywood attorno al Padrino (un altro sottogenere, il ‘film di mafia’, è infatti appena nato). Lucky Luciano è un oggetto intellettuale e critico che decostruisce la narrazione della criminalità, squadernandone i legami con il potere e con la Storia. E alla grande separazione italiana, quella del Ventennio fascista, origine di tutti i nostri presenti e coincidente con la propria nascita (1922), Rosi tornerà con l’opera che sintetizza tutta intera la sua visione umanistica, la sua capacità interpretativa, le sue radici culturali e la sua passione poetica: Cristo si è fermato a Eboli (1979). Volonté è trasfigurato, e la Basilicata confino dell’anima e al tempo stesso punto estremo della sua rigenerazione prende vita sullo schermo.
Christian Caliandro
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