Il paesaggio italiano visto da Laura Cherubini
“Paesaggio Italiano” è un progetto di Laura Cherubini, Giacinto Di Pietrantonio e Cloe Piccoli nato nelle aule dell’Accademia di Brera. Sei incontri seminariali con Simone Berti, Massimo Grimaldi, Riccardo Beretta, Diego Perrone, Patrizio Di Massimo e Yuri Ancarani. Per cogliere, dai loro racconti, le atmosfere e i lineamenti del paesaggio d’arte in Italia oggi. E adesso il tutto è finito in un libro.
Paesaggio Italiano offre uno sguardo sulla situazione artistica degli ultimi anni. Quali tematiche sono emerse?
È emerso il discorso di una generazione che ha delle radici mobili e una voglia di confrontarsi con la specificità italiana e con il background culturale, in relazione e confronto dialettico con esperienze fatte fuori. Sono emersi anche altri temi, soprattutto quello del paesaggio. Un paesaggio antropologico, fatto dalle persone, dagli scambi, dagli incontri, dalle comunità. Questa nozione è stata riletta in modo interessante.
Una cosa emersa dagli interventi soprattutto di Berti, Perrone, Beretta è l’importanza che ha avuto per loro il rapporto con gli altri studenti. L’aver abitato assieme in via Fuggi con tanti altri della loro generazione, come Stefania Galegati, Lara Favaretto, Deborah Ligorio, è stato importante. Così come per Riccardo Beretta aver fatto parte di un gruppo che si chiama Lucie Fontanie. Il confronto con i propri coetanei è stato sempre importante.
Durante queste conferenze che clima si è creato tra artisti e futuri artisti?
Abbiamo lasciato liberi gli artisti invitati di organizzare come meglio volevano la loro conferenza. Per esempio, Beretta ha scelto di presentare il film nuovo, Ancarani una compilation di video, Diego Perrone è venuto senza portare quasi nessuna immagine.
Credo che io e gli altri docenti abbiamo cercato di mettere in luce quali erano le esperienze dell’artista che potevano tornare utili, perché vicine nel tempo, nella situazione all’esperienza di giovani artisti che stavano vivendo la condizione di studenti dell’Accademia di Belle Arti.
Questi artisti si sono formati, oltre che a Brera e alla Naba, anche all’estero. Proprio il fatto di essersi allontanati dall’Italia li ha forse spinti a ricercare nuovamente le loro origini?
Penso che l’artista italiano non dimentichi mai le proprie origini, perché c’è un’assimilazione naturale. Accade perché a Roma Bernini e Borromini li vedi tutti i giorni, a Venezia vedi Tiziano, Tintoretto e Veronese, a Firenze Brunelleschi, Masaccio e Donatello. Hai confidenza con queste esperienze. Non te ne accorgi e te le ritrovi. Nella fattispecie negli artisti più giovani, l’essersi allontanati per periodi più o meno lunghi o anche definitivamente, in molti casi, ha portato a un ripensamento della nostra tradizione storico-artistica.
Nel testo introduttivo ti chiedi: “Sarà ancora possibile riconoscere l’artista italiano in futuro?”…
Un tempo si riconosceva proprio, credo che ora sarà sempre più difficile. Le carte sono talmente mescolate che nessun artista si vuole sentir definire belga, italiano o francese. Questo non toglie che delle specificità e delle eredità assimilate, magari anche contaminate, mescolate, discusse e critiche, restino. Laddove non restassero affatto mi preoccuperei, perché vorrebbe dire che si sta facendo un’arte totalmente omologata. Certamente in un’epoca di globalizzazione i discorsi nazionali sono destinati a cadere o perlomeno ad avere un’importanza sempre più relativa.
Cosa pensa del libro Terrazza. Artisti, luoghi, storie, luoghi in Italia negli anni zero, che offre un atlante della giovane arte italiana attraverso 60 artisti selezionati da Laura Barreca, Andrea Lissoni, Luco Lo Pinto e Costanza Paissan?
Va dato veramente merito alla Quadriennale per aver promosso questa pubblicazione su giovani artisti. Terrazza è un progetto molto ambizioso, intende a tutti gli effetti delineare un paesaggio italiano completo (al contrario della nostra pubblicazione, piccola, parziale e senza pretese di esaustività), con l’ambizione di dire chi c’è e chi non c’è. Dietro alle storie ce ne sono sempre altre che le rendono più complesse.
Mi sono un po’ meravigliata che, volendo fare un lavoro più storico, nessuno si sia preoccupato di citare esperienze passate e nessuno si sia premurato di corredare il libro di una bibliografia. Non è molto scientifico e non attua un doveroso riconoscimento verso tutti quelli che, prima degli autori, hanno lavorato con questi artisti. Soprattutto non è utile per chi legge, perché se vuole approfondire, non gli si forniscono gli strumenti per farlo.
Il Padiglione Italiano alla Biennale di Venezia svolge il ruolo di presentazione di un “paesaggio italiano” contemporaneo? Cosa pensa della nomina di Vincenzo Trione?
Il Padiglione Italiano dovrebbe presentare le specificità e quanto di più nuovo, innovativo e interessante è stato prodotto nel corso degli ultimi due anni. Si dovrebbe fare un padiglione secco. Sia che lo si voglia riportare nella sede naturale dei Giardini, sia che lo si voglia tenere dov’è ora, sia che lo si voglia rifare da qualche altra parte, dovrebbe essere un padiglione come lo sono tutti gli altri: con quattro-sei sale per il quale viene nominato un curatore. Arrivando a un risultato: un padiglione di normale grandezza, un curatore che cambi di volta in volta e che scelga un artista. Questo artista avrebbe il budget concentrato sul proprio lavoro per creare una buona mostra personale. Ci sarebbero meno problemi di budget, ci presenteremmo meglio.
Il concorso ministeriale ha richiesto invece un progetto collettivo. Credo che i padiglioni più riusciti siano sempre stati quelli monografici. Anche perché fanno da contraltare alla mostra internazionale, storico-critica del direttore, che è ad ampio raggio.
Giorgia Quadri
Laura Cherubini, Giacinto Di Pietrantonio e Cloe Piccoli – Paesaggio Italiano
Fortino Editions, Miami 2014
Pagg. 127, € 15
ISBN 9781941372005
www.fortinoeditions.com
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