Il determinismo è una teoria che, pur con significative varianti, attraversa da secoli la riflessione filosofica. Almeno a partire da Democrito, per citare un autore da manuale del liceo. In essa il caso perde (quasi) ogni ruolo, mentre il principio causale assume una forza di estrema cogenza. La causalità sbaraglia la casualità.
Dietro gran parte dei romanzi di Stephen King tale assioma lavora con costanza e tenacia. Talora è più evidente, palese; tal altra è piuttosto assimilabile a una forza implacabile e imperscrutabile. Solco o sottotraccia, in ogni caso segna destini e ingabbia storie. Il Danny di Shining (1977), diventato Dan Torrance in Doctor Sleep (2013), ha un passato da alcolista come il padre e non può evitare di avere a che fare nuovamente con l’Overlook Hotel, o almeno con ciò che ne è rimasto.
Consapevole del celeberrimo “effetto farfalla” (ma è un banale paravento), in 22/11/’63 (2011) il professor Jake Epping non modifica il passato, pur avendo a disposizione un varco temporale che lo può riportare nel 1958 quante volte lo desidera. Vorrebbe modificarlo ma non riesce, non può, gli viene impedito da una sorta di fato inflessibile, e alla fine non vuole cambiarlo, o meglio crede di non volerlo cambiare, è convinto – viene convinto – che sia meglio lasciar perdere.
Un atteggiamento che è insorto in uno Stephen King ormai avviato verso la terza età e dunque più incline alla nostalgia e al fatalismo? No, e lo dimostra il fatto che il mood era già questo in It (1986), forse il romanzo di King con il peggior finale, dove il fil rouge è un’insopprimibile inevitabilità che porta un gruppetto di ragazzini ormai adulti a riunirsi nuovamente per schiacciare la bestia, e chi sceglie di non farlo addirittura opta per il suicidio. Insomma, non ha scelta.
La discrezionalità è un’altra interessante questione filosofica. È lo spazio di manovra, per così dire, che Aristotele individua in chi applica la giustizia, trasformandola in equità. Ed è un istituto che ancora vige nel diritto moderno: sono le nostre aggravanti e attenuanti, e ancora più a monte la differenza fra minimo e massimo della pena per chi commette un dato reato. La giustizia punisce il reato, e – almeno teoricamente – il giudice applica la legge in maniera equa, oltre che giusta, valutando il peso della condanna.
Tutto questo non ha nulla a che fare con la discrezionalità, o meglio con l’arbitrarietà di chi, senza avere i titoli nemmeno per trasformare la giustizia in equità, ovvero per passare dal generale al particolare, si arroga ad esempio addirittura il diritto di non far applicare una norma. Esempio: nel video del brano Solo insieme saremo felici (2013) di Gianni Morandi si forma una giovane coppia. Non entriamo nei dettagli, che sarebbero pur interessanti per la caratterizzazione di personaggi e situazioni. Quella che ci interessa è la sequenza finale: i due sfrecciano su un “vecchio” Maggiolino Volkswagen rosso fiammante e con la capotte abbassata, lui alla guida e lei in piedi che si sbraccia, naturalmente senza cinture di sicurezza. Sono su una strada provinciale, tutta curve e con i platani a lato delle carreggiate; una Pantera della polizia stradale li ferma (naturalmente il più anziano dei due è lo stesso Morandi), si mima il “patente-e-libretto”, si critica l’assenza del dispositivo di sicurezza e forse anche la velocità, e poi – con fare paternalistico – si decide di lasciar andare la coppia senza alcuna conseguenza.
Ecco, questa è l’Italia, almeno l’Italia di questi anni: un misto spaventoso di determinismo e discrezionalità. Dove, ad esempio, la mobilità sociale è pressoché nulla (leggete Thomas Piketty per un quadro più ampio e documentale) e questo fatto è vissuto come un’oscura fatalità. Ma tale determinismo è alimentato da quello che solo all’apparenza è il suo opposto, ovvero la discrezionalità che vige al di sopra delle leggi e delle norme, nel nostro Paese infinite e incomprensibili affinché siano de facto inapplicabili. E così – esempio che sembrerà banale, e proprio tale banalità è spaventosa, come insegna Hannah Arendt – il docente universitario avrà naturalmente il figlio che svolgerà lo stesso mestiere perché quest’ultimo ha potuto studiare, dedicarsi esclusivamente allo studio, e sarà naturalmente più bravo (determinismo), e qualora non sia così bravo da meritarsi quel posto, lo otterrà ugualmente perché il bando di concorso al quale parteciperà sarà tagliato a sua misura da un collega dell’ottimo padre (discrezionalità).
Fatalmente discrezionali, deterministi arbitrari: questo siamo, e le possibilità che una tale situazione sia riformabile sono ridottissime. L’alternativa ha un nome antico, ma a invocarla si rischia d’infrangere la legge, la nostra legge giusta ed equa.
Marco Enrico Giacomelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #22
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