Do not go gentle into that good night,
Old age should burn and rave at close of day;
Rage, rage against the dying of the light.
Dylan Thomas
… quello dumque al che doviamo fissar l’occhio
de la considerazione, è si noi siamo nel giorno,
et la luce de la verità è sopra il nostro orizonte:
overo in quello de gli aversari nostri antipodi?
Si siamo noi in tenebre, o ver essi?
Giordano Bruno, La cena de le ceneri (1584)
Da una parte, l’arte del XX secolo (ciò che noi abitualmente pensiamo sia stato un tutto unitario: e non lo è, affatto); dall’altra, ciò che è accaduto nel corso dell’ultimo trentennio, il processo storico ultimo. Passiamo così dalla fase arcaica delle avanguardie storiche, fatta di sperimentazione e ribellione (1907-1917) alla fase classica del ritorno all’ordine percorso da tensioni metafisiche (anni Venti e Trenta), a cui succede la fase post-apocalittica dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale (Anni Quaranta e Cinquanta), con una produzione artistica che si percepisce per reazione come fondamentalmente astorica. Alla successiva, lunga fase alessandrina (Anni Sessanta-Novanta: con new dada, pop art, minimalismo, concettualismo, neoespressionismo, postconcettualismo) segue gradualmente qualcosa-di-diverso, che coincide con il cambio di paradigma dell’ultimo ventennio, governato sostanzialmente dai criteri di: commercializzazione; finanziarizzazione; globalizzazione; infantilizzazione; semplificazione; nostalgia.
Un’arte che è stata sganciata e dissociata a viva forza da ogni contesto, da ogni tradizione. Da ogni idea e pratica di vita. Un’arte che non sa nulla di sé, che non coltiva alcuna percezione del tempo né del futuro (e è quindi in grado di proiettarli verso l’esterno), ma che vive unicamente di simulazioni archivistiche e di operazioni pseudo-archeologiche. Un’arte che ha reso il proprio stesso passato sconosciuto a se stesso. Aliena e alienata. Con questo abbiamo a che fare tutti i giorni.
È il trauma, solo il trauma che fa rivivere la possibilità di scardinare convenzioni, norme, disposizioni, abitudini inveterate e accettate supinamente come inamovibili e immodificabili all’interno di un polveroso sistema artistico privo di tradizione (passato) e di immaginazione (futuro).
Il trauma smuove e scuote l’interpretazione del proprio contesto di riferimento: se sei comodo, al calduccio, non ti disturbi e non disturbi; coltivi la tua rendita di posizione, e non ti curi del resto. È solo quando crollano i cancelli e i riferimenti, quando implodono dispositivi economici e morali, che la cultura riconquista una chance, e rioccupa un posto nell’agone pubblico.
E allora, occorre fissare il “punto” in cui noi siamo, all’interno di una Storia che paradossalmente rifiuta di situarsi all’interno dei processi, del flusso temporale, dei rapporti causali. Una Storia che si considera assurdamente sganciata dai precedenti come dalle conseguenze. Una Storia, appunto, senza collocazione – senza storia. Ritrovare e ripensare questa collocazione, “riposizionarci”, significa dunque definire finalmente (e chiaramente) questa Storia, compiendo così un gesto al tempo stesso interpretativo e politico. Che tipo di ciclo è quello che viviamo? Innanzitutto, forse, dovremmo considerare che la crisi in cui siamo immersi non è cominciata affatto nel 2008 – ma molto, molto prima.
Una società depressa come l’Italia di questi ultimi decenni e anni e mesi si dibatte, si agita pur di non affrontare i problemi cruciali. Pur di non affrontare le questioni serie, la propria angoscia, la propria tristezza, si concentra su dettagli insignificanti della vita pubblica: quisquilie, bazzecole, polemiche di cortile che sorgono e muoiono in pochi giorni, occupandoli interamente di volta in volta. E si avvita su questi nodi inesistenti, intorno ad essi, disperatamente.
Gli affetti, l’evoluzione interna di te stesso è un territorio forse distinto dal pensiero e dalla produzione culturale? Non proprio; non direi. Vanno di pari passo, strettamente intrecciati. E forse la possibile evoluzione italiana, il tempo nuovo della nazione consisterà proprio in questo: che il cambiamento radicale degli atteggiamenti, della visione generale, dell’approccio alle questioni pubbliche e collettive può passare solo e soltanto da una modifica, da una trasformazione, da un’evoluzione di sé, dei propri comportamenti quotidiani. Di come si gestisce il proprio spazio-tempo esistenziale, il proprio spazio psichico. Sembra forse una questione di poco conto: e invece è tutto lì, come del resto periodicamente si affaccia nella storia del nostro carattere nazionale.
Christian Caliandro
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