La Polonia continua a puntare sulla cultura. Ora anche Solidarnosc ha il suo museo, a Danzica
Che la Polonia continui a dimostrare lungimiranza e intelligenza, puntando a spron battuto sulla cultura, è cosa nota. E non c’è crisi che tenga. E questo discorso vale anche per le architetture. Ne parliamo per ben quattro pagine sul numero in uscita di Artribune Magazine. E qui vi diamo un piccolo assaggio, a proposito del museo dedicato al movimento di Lech Walesa.
PANORAMICA
Orgoglioso, sobrio, ruvido, ferreo del suo ruolo e della sua funzione. L’Europejskie Centrum Solidarności s’impone severo al di là del cancello numero 2, iconografia negli Anni Ottanta della protesta operaia ai cantieri navali Lenin di Danzica.
La cornerstone è stata posta nel maggio del 2011, il taglio del nastro pochi mesi fa. Oltre 54 i milioni di euro spesi, metà a carico dell’Unione Europea. Il concorso per questa scatola dalle pareti arrugginite che fa il verso ai cubi feriti di Libeskind è stato vinto dal Fort Design Studio di Danzica: Wojciech Targowski, Piotr Mazur, Antoni Taraszkiewicz e Pawel Czarzasty.
Integrazione orizzontale per un centro che sarà agorà di pace e di confronto tra associazioni e progetti. Il landmark si mimetizza allo sguardo che incrocia le gru dei cantieri e spazia tra i grigiori della memoria sovietica distesi nella schiettezza che il lavoro operaio richiede: nessuna esuberanza narcisistica dunque ma la pragmaticità di un cantiere tra i cantieri.
GLI SPAZI INTERNI
L’interno è diviso in due piani e due blocchi separati da una giuntura trasparente che fende il ferro tagliandolo in obliquo. Al primo piano la nascita e la celebrazione del movimento di Solidarność, i moti del 1956, del ’68, ‘70 e 1976. Al secondo, il sistema repressivo filosovietico, il cammino di libertà del movimento di Lech Walesa e il suo trionfo. Percorso cronologico, ma soprattutto celebrativo e programmatico.
Il sistema delle sale è però flessibile, gli spazi intercomunicano senza vincolare i percorsi o le traiettorie degli itinerari. Lo spettatore si muove seguendo ciò che lo attrae. L’apparato esplicativo è chiaro, sintetico ed esauriente. C’è la consapevolezza che le opere non parlino da sole. E che ogni visita sia un viaggio da argomentare.
Lo spettatore sceglie tra un giardino d’inverno al piano terra, sale adibite a laboratori, centri per conferenze. Sale a tema, ma i percorsi e le gerarchie sono emotive: dalla retorica celebrativa a quella repressiva. La libertà è orgoglio e conquista, che il museo amplifica in monumento alla memoria perenne. Dialogo anche per la comunicazione tra l’interno e l’esterno, che dà il presente ai fatti narrati nelle sale: la BHP Hall, il monumento ai caduti degli scioperi e dei moti, l’ingresso ai cantieri, le gru dello skyline.Come dire: la città vede ciò che è conservato, il museo guarda la città dal proprio interno, punto di vista della storia. Il suo point of view è un privilegio culturale con cui osservare il circostante. L’architettura si nutre della città che in essa si riflette. Curiosità e aspettativa. Uno scambio veloce, contemporaneo tra quotidianità e informazioni culturali.
L’ESPOSIZIONE
Le forme dell’esposizione comprendono modelli educativi e interattivi. Il paesaggio sonoro permeabile alle sale è un flusso senza soluzione di continuità di proclami politici, discorsi del Papa Wojtyla, inni e voci dei tumulti. Una narrazione che accompagna e sollecita la percezione emotiva di ciò che è dislocato. Si espone e non si mostra. Si fa esperienza, si partecipa di un passato prossimo che penetra nel presente con gli oggetti che al presente appartengono (la giacca appesa di Antoni Browarczyk, il ragazzo ucciso negli Anni Ottanta a poche centinaia di metri dal museo). La logica è quella di Gonzalo Torres e di un museo dedicato alla Seconda guerra mondiale che a breve sorgerà a nord di Danzica.
Si usa il diorama: furgoni della polizia, muletti da cantiere, celle per detenuti, le stanze e le tipografie degli intellettuali che scrivevano e stampavano volantini diventano però ulteriori contenitori espositivi. All’interno di essi, video interattivi espandono la memoria dei protagonisti, raccontano la cronaca dei fatti, approfondiscono i documenti esposti. Video da toccare come i tavoli di Studio Azzurro che ci parlano dei volti degli operai dei cantieri navali: toccare per vedere. E poi installazioni che sciolgono il confine tra estetica e storia: una parete di foto alla Boltanski, le tute blu appese come un’opera di Kounellis, i caschi gialli a tappezzare il soffitto. Lo spazio si permea di esperienza, volantini e cartoline su imballaggi usati come divisori, sono alla portata tattile degli spettatori, mentre il volto (già familiare di Jaruzelski) ricompare nella scatola della tv.
L’interattività intanto si consuma attorno a un muro che a contatto s’illumina di frasi sulla pace e una parete espone i biglietti di chi vuol lasciare un ricordo di quanto vissuto. Ricordare senza essere didascalici si può. La memoria non è distanza.
Simone Azzoni
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